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Balla «fotografico» e «cinematografico»

Una presentazione della monografica su Giacomo Balla di Simone Aleandri

Francesca Romana Morelli

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Sul recto della monumentale tela «Velocità astratta» (1913) Giacomo Balla dipinse, circa vent’anni dopo, la «Marcia su Roma», in concomitanza con il decennale dell’evento, servendosi di una fotografia riprodotta su un giornale del tempo.

Alla ricerca figurativa del pittore torinese Simone Aleandri dedica, fino al 2 aprile, la mostra «Balla dipinse», una trentina di opere tra tempere, pastelli, disegni a china e a matita. L’utilizzo del nuovo immaginario offerto dalla fotografia, dal cinema e da riviste sedusse numerosi artisti dell’epoca, compresi quelli italiani, fra i primi Francesco Paolo Michetti, per poi diventare un filtro diffuso nel periodo del Ritorno all’ordine.

Anche l’orientamento figurativo di Balla, che ha molteplici origini, risente dei nuovi media, spiega Fabio Benzi, curatore della mostra e autore di un saggio nel catalogo: «Dalla fotografia di moda, come dalla fotografia artistica di alcuni italiani (Arturo Ghergo, Elio Luxardo) che enfatizzavano l’uso espressivo del taglio diagonale e della luce radente, egli deduce strutture formali e cromatiche che volutamente si pongono come un’icona dell’immaginario collettivo “all’ultimo grido”, di pose che citano il nascente divismo mediatico (…) interpretazione di punta del “gusto moderno”».

La mostra rivisita l’intero itinerario di Balla (1871-1958), tra cui il «Ritratto del pittore Giorgio Szoldatics» (1907), «Lo specchio riflette, la luce risplende» (1945), un nucleo di straordinari ritratti delle figlie Luce ed Elica («Colorluce», del 1924, «La prima foglia gialla» del 1938, «Profilo controluce» del 1943) e infine una natura morta, «Aranci di Messina nella gioiosa marea» (1952), in cui il talento dell’anziano maestro fruga tra le pieghe del banale quotidiano.
 

Francesca Romana Morelli, 11 marzo 2017 | © Riproduzione riservata

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