Jenny Dogliani
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In inglese daydreaming, il sogno a occhi aperti è un’attività di pensiero spontaneo e non deliberato, che sta acquisendo una sempre maggiore rivalutazione e una crescente attenzione da parte di neuroscienziati, filosofi e artisti. Ritenuto per secoli una distrazione irrilevante, il daydreaming coincide in realtà con la capacità sorgiva della mente di andare al di là dell’esistente, per proiettarsi in avanti rilanciando la nostra esperinza di vita senza alcun controllo da parte della ragione. Come confermano le ultime ricerche è un pensiero fortemente visivo e creativo, prossimo a quello artistico, capace di anticipare quanto ancora non c’è e di riplasmare il mondo esistente. La parola a Pier Francesco Petracchi, Giulio Rampoldi, Pietro Rossi, fondatori della Galleria MATTA, Milano.
Artissima invita quest’anno ad ascoltare i propri sogni ad occhi aperti, chiamando a raccolta una comunità di daydreamers, quella degli artisti e di chi accompagnano il loro lavoro, per intraprendere un viaggio emozionante alla scoperta del potenziale illimitato della mente umana. Quanto contano nel vostro lavoro il daydreaming e la condivisione di sogni con artisti e curatori?
Sognare a occhi aperti è una componente centrale del nostro processo cognitivo, poiché rappresenta un ponte tra l’immaginazione e la realtà tangibile della creazione. Permette di esplorare possibilità illimitate, superando i confini della logica immediata e aprendo spazi nuovi di riflessione. È in quei momenti di vagabondaggio mentale che emergono le idee più inaspettate e potenti, perché non ci sono vincoli razionali a limitarle. Questo processo di pensiero libero è ciò che spesso getta le basi per i nostri progetti. La condivisione di sogni con artisti e curatori amplifica questo potenziale. Ogni incontro con un altro sognatore apre una nuova prospettiva, una nuova energia che arricchisce la visione collettiva. È nel dialogo e nell’apertura verso le idee altrui che si costruisce un universo più florido e in continuo divenire. Gli artisti, in particolare, sono esploratori di questi spazi interiori, capaci di dare forma a immagini e concetti che trasformano le infinite possibilità della mente umana. Nel nostro lavoro, quindi, il sogno a occhi aperti non è solo un punto di partenza, ma anche un metodo costante di esplorazione e sviluppo. La capacità di trasmettere e ricevere sogni, di entrare in sintonia con le visioni altrui è una fonte inesauribile di ispirazione. In questo senso il processo di creazione diventa un viaggio collettivo, una continua scoperta di territori immaginari che possono trasformarsi in realtà.
Prima che fosse realtà, lavorare nel mondo dell’arte è mai stato il vostro sogno a occhi aperti?
Più che di sogno in questo caso parlerei di desiderio. Il mondo dell’arte ha sempre esercitato su di noi una forte attrazione, ma più per il fascino intrinseco della creazione che si lega all’espressione che per la realizzazione di un sogno preciso. Abbiamo sempre avuto la spinta di immergerci in un contesto in cui l’immaginazione, la sensibilità e l’autonomia intelletuale fossero al centro, dove poter esplorare idee ed emozioni da un punto di vista estetico. Non era tanto un traguardo da raggiungere, quanto una volontà di rapportarsi con un ambiente capace di stimolare continuamente la nostra curiosità e il nostro amore per tutte le forme artistiche. Più che un sogno a occhi aperti, il nostro è un desiderio di scoperta, di connessione profonda con ciò che l’arte rappresenta e comunica.
Ricordate un’opera d’arte che negli anni vi ha particolarmente ispirato a sognare a occhi aperti?
Siamo in tre e sicuramente la traiettoria delle nostre diverse prospettive, che normalmente viene sintetizzata nelle mostre, in questo caso non può che diramarsi in tre diverse direzioni.
GIULIO RAMPOLDI. C’è un opera nella quale sono entrato da bambino e ancora non ne sono uscito. È la stanza di Jean Dubuffet al Centre Pompidou di Parigi, a volte la sogno ancora, molto più ampia di come è nella realtà, ci sono io dentro che cerco l’uscita, ma ancora non l’ho trovata... e non so se voglio riuscirci.
PIETRO ROSSI. Mi ha profondamente ispirato l’opera di Felix Gonzalez Torres, in particolare le sue caramelle che il pubblico può prendere e scartare. Apparentemente semplice, è un’opera straordinariamente concettuale: l’idea che l’arte possa essere consumata e condivisa, sparendo attraverso l’interazione, evoca la fragilità e la temporalità. Ogni caramella presa è un atto di partecipazione, un dialogo silenzioso tra artista e spettatore. È un’opera che invita a riflettere sull’amore, la memoria e l’assenza, e ogni volta in cui il mio pensiero ci torna mi rivela nuove sfumature.
PIER FRANCESCO PETRACCHI. Se devo pensare a un sogno ad occhi aperti penso al «Caffè di notte» di Van Gogh, che abbiamo visto quando siamo stati a trovare Eloise Hess a Yale. Quello che mi affascina di questo dipinto è come Van Gogh riesca a creare un’atmosfera che sembra sospesa tra il sogno e la realtà. Il contrasto tra l’interno vivo e la pace della strada deserta mi porta a immaginare storie segrete e momenti di solitudine, come se quell’angolo di mondo racchiudesse un universo. Van Gogh stesso descriveva l’opera dicendo: «Ho cercato di dipingere le terribili passioni umane con il rosso e con il verde. È ovunque una lotta e un’antitesi dei verdi e dei rossi più diversi, nei personaggi di piccoli teppisti che dormono, nella sala vuota e triste... Nel mio quadro “Caffè di notte” ho cercato di esprimere l’idea che il caffè è un posto dove ci si può rovinare, diventar pazzi, commettere dei crimini».
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