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Giorgio Bonsanti
Leggi i suoi articoliLa recente riapertura della Basilica di San Benedetto a Norcia, distrutta nel terremoto del 2016, offre un senso di speranza e fiducia. Nei documenti diffusi, leggiamo che il progetto di ricostruzione e restauro è stato ispirato al principio del «com’era, dov’era», e qui si propone prepotentemente un’antica criticità. Cesare Brandi, nella sua Teoria del Restauro (1963), aveva scritto che «l’adagio nostalgico “Come era, dove era” è la negazione del principio stesso del restauro, è un’offesa alla storia e un oltraggio all’Estetica» (con la E maiuscola). Il Campanile di San Marco a Venezia, crollato nel 1902, avrebbe dovuto essere sì ricostruito, ma non nella stessa forma; e così la ricostruzione del Ponte a Santa Trinita dell’Ammannati a Firenze, distrutto dai tedeschi in ritirata, veniva giudicato da Brandi «un falso delittuoso».
Sicuramente qualcuno avrebbe preferito una chiesa di nuovissima progettazione al posto della Basilica di Norcia, così come qualcuno vorrebbe oggi un edificio moderno al posto della Torre dei Conti a Roma, di recente parzialmente crollata. Dopo il terremoto in Emilia del 2012, uno studio di architetti progettò per una chiesa di Mirandola un campanile a forma, è il caso di dire, di forme di parmigiano reggiano sovrapposte. Ma si può risolvere in punto di teoria, come Brandi, un dilemma così drammatico? Quanti, al posto dei veneziani del 1902, avrebbero desiderato un campanile diverso dal loro campanile? È immaginabile una teoria spietatamente astratta in cui sia totalmente assente l’elemento umano? Perché è da dire che a Norcia, secondo il mitico esempio del Duomo di Venzone dopo il terremoto in Friuli del 1976, si è lavorato salvando e recuperando i singoli conci originali, ritrovandone rigorosamente la precisa ubicazione.
Anche nel restauro della Cattedrale di Notre-Dame a Parigi si sono replicati persino gli elementi ottocenteschi, storicizzando la forma quand’anche non la sostanza. Di questa inevitabilità nel tener conto dell’elemento umano, si sono fatti carico documenti internazionali ispirati a principi troppo a lungo trascurati, consistenti nel coinvolgimento delle comunità locali e richiedendone una partecipazione attiva. E qui debbono essere evitati equivoci; coinvolgimento non significa delega decisionale, laddove esistano aspetti storici e tecnici che sono alla portata di professionisti specializzati. Ma nel 2020 l’Italia ha ratificato la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società (Convenzione di Faro, 2005), dove viene riformulato il concetto di patrimonio culturale e si insiste sulla qualità di «stakeholder» (cioè «aventi diritto») delle popolazioni locali, ratificando sostanzialmente che il solo interessamento alla perpetuazione di un bene culturale conferisce alle persone e alle comunità precisi diritti. Diremo dunque che la teoria viene progressivamente sostituita dall’etica? Piuttosto, che la teoria non può fare a meno dell’etica, non soltanto su base pratica, quanto anche, appunto, teorica; così come è bene che l’etica si sostanzi della teoria. E l’umanità comprende ambedue. È un argomento che ho meditato spesso, anche sollecitato dalla presenza sempre più consistente del restauro del contemporaneo.
Le problematiche offerte da determinate classi di realizzazioni artistiche, che prevedono installazioni, Arte Povera, materiali presi a caso e a volte destinati all’autodistruzione, Arte concettuale, site specific o Landscape art, fanno sì che il restauratore debba ripensare alcuni concetti basilari cui era affezionato, a cominciare da quello, sempre rischioso, dell’originalità. Se in architettura essa non può consistere nei materiali nudi e crudi, ma nel progetto, nella contemporaneità ci si misura con l’intenzione dell’autore, frequentemente ancora presente. E difficilmente Giovanni Anselmo ci avrebbe detto che non si possono sostituire le foglie d’insalata della «Scultura che mangia». Similmente, problemi nuovi nascono dall’applicazione dei princìpi del restauro a categorie di oggetti che fin qui avevano marciato secondo cammini propri. Penso, ad esempio, alle vetture storiche, cui negli ultimi tempi sono state dedicate iniziative da parte di professionisti fin qui diversi per formazione, competenze, interessi (un corso è stato da poco tenuto nel Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, con il Museo dell’Automobile di Torino). Non sarà facile trovare terreni di incontro, essendo evidente il punto critico dato dal valore economico delle vetture storiche, destinate tradizionalmente a gratificare i proprietari anziché al rispetto rigoroso delle componenti originali. È vero d’altra parte che il valore di un’auto storica prevede certamente l’originalità dei singoli pezzi come elemento determinante nello stabilirne il valore. Tutte considerazioni sulle quali continuerò a interrogarmi. Conservazione e restauro non si prestano alle semplificazioni.
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