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Lucio Fontana, «Concetto spaziale, La fine di Dio», 1963, battuto per 14,6 milioni

Courtesy Sotheby’s

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Lucio Fontana, «Concetto spaziale, La fine di Dio», 1963, battuto per 14,6 milioni

Courtesy Sotheby’s

Daniella Luxembourg: «È necessario comprare con la testa e con il cuore»

La gallerista ha animato le aste newyorkesi con la vendita di una parte importante della sua collezione con opere di Fontana, Burri, Manzoni, Pascali, Fabro e Pistoletto. In questa intervista spiega le ragioni della sua scelta 

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Alberto Fiz

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«Non ho tradito l’arte italiana», afferma perentoria Daniella Luxembourg che con la vendita della sua collezione è stata tra le grandi protagoniste delle aste newyorkesi. In una fase di mercato piuttosto complessa con valori ribassati, la celebre gallerista con due sofisticati spazi a Londra e New York dove cura mostre di livello museale, ha deciso di alienare parte del suo patrimonio da Sotheby’s ottenendo il 15 maggio 40,4 milioni di dollari di cui 27,7 milioni dalle opere italiane. Sebbene fosse tutto garantito, il 60% ha superato le stime. Un segnale importante anche se in taluni casi i valori sono fermi a quelli di dieci anni fa. Ma Daniella Luxembourg non ha rimpianti e spiega a «Il Giornale dell’Arte» le ragioni di una scelta che non appare condizionata dai valori transitori del mercato. E consiglia due nomi: Gino De Dominicis e Mario Sironi.

Per quale ragione ha deciso di vendere?
Ci sono periodi della vita in cui sono necessari cambiamenti profondi e così ho deciso di alienare velocemente alcune opere importanti. 

Avrebbe potuto esitarle privatamente, invece ha scelto l’asta
Era la strada più semplice e veloce e in tal modo avrei evitato di essere coinvolta in prima persona rispetto a un patrimonio a cui sono intimamente legata. Ho preso la decisione finale poco meno di due mesi fa e la straordinaria organizzazione di Sotheby’s è riuscita a confezionare la vendita con una ricerca approfondita su ogni singola opera.

Chi ha deciso d’intitolare la vendita «Im Spazio» facendo riferimento alla prima mostra di Germano Celant nel 1967 sull’Arte Povera?
Una scelta molto azzeccata dovuta all’intuizione di Claudia Dwek, responsabile europea dell’arte contemporanea, che ha seguito con scrupolo la vendita insieme alla direzione di New York. 

In che periodo ha realizzato gli acquisti?
La maggior parte risalgono a 20-25 anni fa e posso dire con convinzione che ogni opera è di assoluta qualità, come gli esiti dell’incanto hanno confermato. Quando le ho acquistate in asta o in vendite private le ho pagate cifre record in quanto sapevo che erano esclusive. È necessario comprare con la testa e con il cuore. 

Quando ha acquistato la «Fine di Dio» di Lucio Fontana, l’opera clou dell’asta?
Nel 2002, l’anno in cui ho organizzato una mostra a Zurigo insieme a Simon de Pury. Sono rimasta particolarmente colpita da questo lavoro per l’essenzialità e per l’energia che emana. Non ha eccessive decorazioni come in altre opere della medesima serie, magari realizzate con colori più suadenti.

All’inizio del terzo millennio i costi per la «Fine di Dio» erano intorno al milione di euro. Ma un’opera simile alla sua nel 2018 da Christie’s a Londra era stata pagata 16,3 milioni di sterline, circa 22 milioni di dollari. Attualmente il prezzo è stato di 14,6 milioni di dollari. È rimasta delusa?
Perché mai? Non sono certi questi i parametri con cui ho fatto la mia scelta. I prezzi li conosco bene.

Mi scusi se insisto, ma della sua collezione faceva parte uno straordinario «Cretto Nero» di Alberto Burri che meritava sicuramente di più rispetto all’aggiudicazione di 3,1 milioni di dollari, mentre «Maria nuda», un quadro specchiante di Michelangelo Pistoletto datato 1969, ha avuto un ottimo esito con un’aggiudicazione di 3,4 milioni di dollari, oltre il doppio rispetto alla stima massima.
Il tempo è galantuomo e quando vent’anni fa ho acquistato quell’opera da Christie’s a Londra l’ho pagata 366mila sterline, allora il record per Pistoletto.

E cosa mi dice di Pino Pascali con il «Tappeto» di lana d’acciaio aggiudicato a 1,6 milioni di dollari rispetto a una valutazione di 400-600mila? L’aveva pagato 184mila sterline da Sotheby’s a Londra nel 2003.
Era stato un ottimo acquisto. Pascali ha inventato un linguaggio trasformando gli oggetti e continuerò a sostenerlo come ho sempre fatto. Del resto, non ho certo abbandonato l’arte italiana di cui continuo a custodire da collezionista molte testimonianze importanti. Insieme a Pascali, potrei ricordare Fontana ma anche Jannis Kounellis e Gino De Dominicis, un altro straordinario protagonista che non ha ancora raggiunto il successo che merita. Il ruolo dell’Italia negli anni Sessanta è stato insuperabile e a quella stagione ho dedicato nel 2021 «Lost in Italy» una grande mostra curata da Francesco Bonami nella mia galleria di Londra dove emergeva la forte influenza esercitata sugli artisti americani quali Robert Rauschenberg e Cy Twombly.

Su quali ambiti di ricerca si concentra ora?
M’interessano molto le avanguardie storiche e la loro relazione con la contemporaneità. A Londra per tutta l’estate propongo una mostra sulle sculture invisibili che parte da Man Ray per arrivare a Maurizio Cattelan passando attraverso Piero Manzoni.

Un periodo storico su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione dei collezionisti?
Sicuramente gli anni Venti del Novecento, un’epoca di transizione per molti versi paragonabile a quella che stiamo vivendo ora. 

In quel periodo un grande artista italiano assai sottovalutato come Mario Sironi ha realizzato le sue opere più importanti.
Certo, merita molto di più. Di lui ho uno splendido disegno che conservo gelosamente nella mia casa di Ginevra. 

Alberto Fiz, 17 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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