Olga Scotto di Vettimo
Leggi i suoi articoli«Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire e impallidire di amore: è lei che la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore», così scriveva Matilde Serao in Leggende napoletane (1881) a proposito della sirena Parthenope e della millenaria identificazione della città con il suo mito fondativo.
La chiave narrativa dei miti e delle leggende consente un attraversamento della città alla scoperta non solo di Parthenope, ma anche di una Napoli del presente che risulta spesso, proprio attraverso le sue narrazioni leggendarie, più comprensibile e autentica. Lo scrittore e giornalista Vittorio Del Tufo (Napoli, 1964), autore di numerosi volumi dedicati alle storie e alle leggende di Napoli, propone un viaggio a ritroso nel tempo, un percorso immersivo nella città, consapevole, nel solco dell’insegnamento di Benedetto Croce (Storie e leggende napoletane, 1919), che in ogni storia e in ogni leggenda alberga una verità, le cui tracce emergono ancora con evidenza nella Napoli contemporanea.
Vincitore nel 1996 del Premio Cronista della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, nel 2020 è stato insignito anche del Premio Biagio Agnes per la divulgazione culturale. Capo redattore de «Il Mattino», Del Tufo cura da quasi dieci anni la pagina settimanale «L’Uovo di Virgilio: i luoghi della memoria, la memoria dei luoghi», un’indagine su Napoli che si sviluppa anche come racconto visivo attraverso le immagini del fotografo Sergio Siano nel volume pubblicato lo scorso anno.
Partiamo dal titolo della rubrica. Perché si rifà a quella leggenda?
Il titolo della rubrica prende spunto dalla leggenda dell’Uovo di Virgilio, legata al mito di Virgilio «mago». C’è stato un tempo in cui il poeta Virgilio era il vero nume protettore della città, prima che san Gennaro, per così dire, gli usurpasse il trono. In età medievale a Napoli fiorì una grande scuola ermetica che aveva l’alchimia tra i suoi principali interessi e anche la leggenda di Virgilio mago si diffuse in quel periodo: Megaride era stata nell’antichità rifugio di eremiti e monaci alchimisti che nel segreto delle grotte naturali, o dei ruderi di epoca romana, compivano le loro ricerche. Come loro, Virgilio avrebbe scelto l’isoletta per effettuare i suoi studi e mettere alla prova i suoi poteri; la deposizione dell’uovo salvifico, in tal senso, sarebbe solo uno dei suoi esperimenti. Il titolo della mia pagina è un omaggio a questa meravigliosa leggenda.
Una città multiforme, a più tinte, che rischia sempre di essere compresa solo in superficie. Perché parlare di Napoli? O meglio, come si fa a parlare di Napoli e ad andare oltre ogni evidenza?
Napoli è una città che più di altre si presta a essere rappresentata attraverso stereotipi e luoghi comuni. Per certi versi si potrebbe dire che è una città più facile da «riconoscere» che da conoscere veramente. Per conoscere davvero Napoli e non limitarsi a «riconoscerla» bisogna superare la barriera del colore e del folklore e penetrare il nucleo incandescente del genius loci. Lì dove risiede il mito. Perché a Napoli il mito non è mai lontano dal reale, ma è il soffio poetico che lo anima dall’interno, come un battito ancestrale: un respiro lontano e potente.
Una città da raccontare, ma che non si può definire. Era così anche in passato?
Certo. A Napoli passato e presente dialogano ininterrottamente. Se le città, come diceva Calvino, sono un paesaggio dell’anima, di questo paesaggio Napoli conserva un’impronta magica, mitica e leggendaria. Città pluridominata, scrigno di tesori e culture diverse, distesa sulle camere d’aria di un immenso alveare di pietra, Napoli ha sempre avuto un rapporto strettissimo con la sua dimensione magica. È un rapporto che sopravvive alle ingiurie del tempo, agli infiniti sfinimenti della cronaca e alle devastazioni della storia. Napoli ha una storia ultramillenaria, ma è come se sotto questa storia corressero tanti percorsi paralleli e tunnel sotterranei nei quali viene conservato molto più di quello che, a un livello superiore, è stato cancellato dalla storia, dalle guerre o anche dalla civilizzazione selvaggia.
Parliamo di «turistificazione» e gentrificazione: come sta cambiando la città e da che cosa si percepisce? Che cosa la infastidisce e che cosa, invece, le piace?
Chiunque abbia a cuore, fuor di retorica, l’immagine di Napoli e la sua grande bellezza non può che celebrare, con orgoglio, le immagini di festa che rimbalzano dai vicoli del centro storico, gli alberghi sold out e la fiumana di turisti che si riversa ogni giorno nel palcoscenico a cielo aperto del centro storico, offrendo uno spettacolo forse unico al mondo. Allo stesso tempo bisogna riconoscere che molti luoghi simbolo della città sono ancora abbandonati all’incuria e al degrado. L’altra faccia della festa è la bellezza mortificata da vandali e negligenza. Valorizzare il patrimonio della città significa diffondere la consapevolezza che siamo letteralmente seduti su di un immenso giacimento di arte e cultura che spesso non riusciamo a proteggere. Questo patrimonio merita di essere valorizzato, ma soprattutto salvaguardato, attraverso una politica quotidiana di «manutenzione della bellezza» che per troppi anni, a Napoli, è mancata.
Che cosa dovrebbe fare Napoli in questo momento?
Per prima cosa bisogna offrire una rete di servizi adeguata alla straordinaria proiezione internazionale della città. Napoli è una città in cammino che guarda al futuro e che sta cercando di liberarsi dalle zavorre del passato. Eppure molti servizi, a cominciare dal trasporto pubblico su gomma, sono ancora (e del tutto) insufficienti. Poi occorre uno sforzo imprenditoriale (e istituzionale) in grado di trasformare i numerosissimi eventi in sistema, in economia. Napoli è una città di grandi talenti, dalla scrittura al teatro, dalla musica al cinema. Ridurre lo scarto tra questi talenti, che si muovono perlopiù isolatamente, in ordine sparso, e riunirli in una filiera economica e imprenditoriale in grado di metterli in rete è, ritengo, una delle grandi scommesse dei prossimi anni.
La sua indagine culturale su Napoli ne sottolinea la stratificazione straordinaria, che finisce anche con avvolgerla in luci e ombre particolari. Nella sua pagina settimanale si occupa spesso dei misteri dell’arte e della musica. Può raccontarci una delle storie più appassionanti?
Mi sono imbattuto più volte nella meravigliosa e leggendaria storia della «Compagnia della morte», ovvero di quel gruppo di straordinari artisti che nella Napoli del Seicento avrebbero fatto parte di questa leggendaria «società segreta» sorta con l’obiettivo, tanto folle quanto irrealizzabile, di togliere dalla faccia della terra tutti gli spagnoli che occupavano Napoli, a cominciare dal viceré. A prender per buona la ricostruzione dello storico dell’arte e pittore Bernardo De Dominici, il leader del gruppo di cospiratori sarebbe stato Aniello Falcone, che avrebbe fondato la setta criminale per vendicare la morte di un amico, avvenuta, manco a dirlo, per mano degli spagnoli. Della Compagnia avrebbero fatto parte anche Micco Spadaro (alias Domenico Gargiulo, chiamato così perché il padre era un artigiano forgiatore di spade), Mattia Preti e Salvator Rosa, il più giovane di tutti. Pittori dall’eccezionale talento, ma anche, secondo la leggenda, audaci cospiratori e valorosi spadaccini.
Queste vicende ci riportano negli straordinari musei napoletani che conservano le opere di questi artisti, ma ci fanno immaginare anche altri luoghi e strade della città. Dove si possono rintracciare queste storie?
Beh, per esempio, c’è un tesoro nascosto nella Chiesa di San Giorgio Maggiore, tra via Duomo e Forcella. È custodito alle spalle dell’altare maggiore e per circa tre secoli è rimasto celato. Il tesoro proibito, che per oscure ragioni doveva restare invisibile, è un dipinto di Aniello Falcone, un affresco dallo straordinario impatto emotivo che riproduce le atmosfere del mito medievale, fiabesche e ricche di allegorie. È il mito popolare di san Giorgio, il martire cristiano che, secondo la leggenda, uccise il mostro che infestava la città di Selem, in Libia, salvando la vita alla giovane figlia del re, offerta in sacrificio dal padre per placarne la furia. Perché l’opera di Aniello Falcone è rimasta nascosta per così tanto tempo? Che cos’è che i fedeli non potevano vedere? Forse la risposta è da ricercare proprio in quel nome, «Compagnia della morte», e nel gruppo di straordinari artisti che nella Napoli del Seicento avrebbero fatto parte di questa leggendaria «società segreta». Leader del gruppo di cospiratori, come si diceva, sarebbe stato proprio Aniello Falcone. E davvero la censura calata sul «San Giorgio che uccide il drago» di San Giorgio Maggiore fu dovuta al ruolo avuto da Aniello Falcone nella «Compagnia della morte»? Non vi sono certezze, ma a me piace credere che sia andata proprio così.
Anche la musica ha i suoi misteri? Quali storie le appaiono più interessanti?
Il mistero più affascinante riguarda il reale significato della canzone Michelemmà. Durante il Seicento si diffuse a Napoli il ritornello di una canzone, assai intrigante e misteriosa, che parlava di una fanciulla nata in mezzo al mare. O forse rapita, in mezzo al mare, durante una scorribanda di pirati saraceni. Per questa fanciulla, che forse si chiamava Michela o forse no, gli innamorati facevano follie e si suicidavano, addirittura a due alla volta. Una strage di cuori ambientata secondo alcuni sull’isola d’Ischia, punto di approdo per gli sbarchi dei Turchi. Questa canzone, come un messaggio criptato o un delizioso gioco di specchi, sfugge da secoli a ogni tentativo di interpretazione, rimandando ogni volta a significati diversi. Canzone-simbolo e canzone-mito per tante generazioni di posteggiatori, Michelemmà continua a suscitare dubbi e quesiti, a cominciare dal testo che fa riferimento a una misteriosa «scarola» che sarebbe sorta, stranamente, in mezzo al mare. E se scarola fosse invece sinonimo di scavotta, cioè schiava? È l’interpretazione suggerita da alcuni studiosi, e potrebbe rimandare, volando di fantasia, al blitz compiuto dai pirati saraceni del leggendario Uccialì, che la notte del 25 maggio 1563 sbarcarono a Chiaia per rapire la principessa Maria d’Aragona nel Palazzo d’Avalos del Vasto, l’attuale via dei Mille.
Luoghi, miti e leggende. Quali itinerari non scontati si potrebbero suggerire?
Il triangolo esoterico di San Domenico Maggiore. La Chiesa di San Domenico Maggiore, la Cappella Sansevero e la statua del dio Nilo formano un triangolo che gli appassionati di enigmi, ancora oggi, considerano «magico», il vero cuore esoterico della città. Merito delle potentissime suggestioni offerte dalla cappella di famiglia del principe Raimondo di Sangro, ovvero il principe di Sansevero, il quale fece scavare una vasta rete di cunicoli sotterranei proprio allo scopo di collegare il Palazzo Sansevero (nei cui sotterranei il principe alchimista svolgeva i suoi misteriosi esperimenti) e la Cappella Sansevero con l’area del tempio di Iside. L’intento era quello, verosimilmente, di utilizzare e mettere a frutto, proprio per i suoi esperimenti, il luogo di forze e i motivi esoterici legati al tempio egizio. Storie meravigliose, ancora misteriose. Storie napoletane.
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