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Wolfgang Laib nello stand immaginario di Danilo Eccher

© Wolfgang Laib. Foto: Carolyn Laib

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Wolfgang Laib nello stand immaginario di Danilo Eccher

© Wolfgang Laib. Foto: Carolyn Laib

Eccher e Mattirolo: che cosa cambia ad Art Basel

La storica dell’arte e il curatore parlano delle loro aspettative prima della fiera svizzera: ci avviciniamo sempre più al mercato borsistico, non importa dove sei ubicato, gli incontri avvengono nelle fiere

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Giorgio Guglielmino

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La «fiera delle fiere» apre i battenti il 13 giugno e c’è molta attesa nell’aria. Sotto la nuova guida di Maike Cruse, già responsabile delle comunicazioni della kermesse svizzera dal 2008 al 2011 e, attualmente, direttrice del Gallery Weekend di Berlino, l’appuntamento si prefigura determinante per poter osservare sul campo (e che campo!) se, come evidenziato dal rapporto sul mercato dell’arte realizzato in comunione tra Art Basel e Ubs, gli affari delle gallerie confermano una lieve flessione

Anna Mattirolo, storica dell’arte ed ex direttrice del MaXXI arte e Danilo Eccher, curatore e già direttore di vari musei, dialogano sul presente e sul possibile futuro di queste piccole e grandi imprese, punto di riferimento chiave per i diversi protagonisti del mondo dell’arte, immaginando anche i loro «allestimenti ideali» da visitare durante Art Basel.

Anna Mattirolo. Il panorama delle gallerie è ovviamente molto vasto e ha diversi livelli. A un estremo quelle molto grandi, potenti, diventate esse stesse una sorta di brand; all’altro una fascia meno influente che fa una gran fatica a sopravvivere ed è un peccato, perché sono quelle che ancora in parte riescono a fare scouting. Vi è poi una fascia intermedia che sta cambiando molto e regge finché riesce a mantenersi legata a un collezionismo di buon livello.

Danilo Eccher. Si sta ampliando quella forbice che abbiamo visto aprirsi 10 o 15 anni fa: le grandi gallerie da una parte e poi tutte le altre. Oggi si giocano campionati diversi. Cinque, sei o al massimo dieci gallerie al mondo giocano un torneo a parte e quindi non fanno testo perché sono legate ai comitati di selezione delle fiere, con le grandi manifestazioni internazionali, e sarebbe interessante capire i rapporti che esistono tra di loro e con le case d’asta. Poi ci sono tutte le altre gallerie con una grande diversificazione. La fascia intermedia è forse quella che in questo momento soffre di più perché si è vista sottrarre il grande collezionismo mentre il piccolo collezionismo stenta. In più, un altro fenomeno non positivo è che quello che un tempo facevano le gallerie giovani, e cioè sperimentazione, oggi non lo fanno più, non azzardano, e rincorrono la parte storica, qualche maestro dimenticato: se viene a mancare il progetto sperimentale e il grande livello va per conto proprio, quello che resta è poco. 

A.M. È vero quello che dici, molte gallerie ora guardano indietro alle personalità che sono state un po’ abbandonate dalla storia. Come persona delle istituzioni, quello che mi inquieta molto è che le grandi gallerie ormai hanno il sopravvento nel sistema dell’arte scavalcando anche i musei, in quanto dotate di capitali freschi e decisamente superiori a quelli di una normale struttura museale. Anche i quattro o cinque musei più importanti al mondo fanno fatica ad acquistare per le collezioni perché i prezzi delle opere sono ormai troppo elevati.

D.E. Da tempo le gallerie presentano mostre che ormai i musei non si potrebbero permettere, anche esibendo molte opere non in vendita. È una prassi che le gallerie adottarono a partire dagli anni Sessanta. Ricordo galleristi chiedere agli artisti di fare delle mostre «invendibili» perché era il modo di presentare la galleria a un livello spettacolare sapendo che poi le vendite venivano fatte a lato. Prima si vendeva nel magazzino, oggi via internet. La mostra non ha più lo scopo di far vedere l’opera che poi si vende. 

A.M. A questo proposito so anche che le stesse aste online funzionano benissimo e hanno un fatturato in continuo aumento. Il contatto diretto con l’opera, però, viene meno.

D.E. Sarebbe interessante approfondire non tanto chi compra in queste aste, ma chi vende. Come si alimentano? Per grandissima percentuale dalle stesse gallerie. E questo anche contribuisce alla crisi d’identità della galleria. Si è generato uno strano intreccio di interessi.

A.M. Soprattutto si è innescata una corsa da parte di tutti, gallerie, case d’asta, fiere, che stressa il mercato in modo esagerato. Devi essere aggiornato giornalmente come se le opere d’arte fossero titoli di borsa.

D.E. È questo uno degli aspetti più pericolosi del mercato dell’arte, il fatto che sempre più si avvicina al mercato borsistico. Vi sono collezionisti che comprano le opere, non le aprono nemmeno e le rivendono sei mesi dopo. Questa è la logica della borsa. È una nuova frontiera ed è una realtà con la quale le gallerie devono fare i conti. Tra le nuove realtà italiane una che sta emergendo anche internazionalmente per la quantità di fiere alle quali partecipa è la galleria P420 che ricorda un po’ gli inizi anche della galleria Continua. Erano due gallerie che provenivano da realtà piuttosto contenute, una a San Gimignano, l’altra a Bologna, quindi con l’esigenza di uscire dal loro territorio. La galleria P420 ha avuto anche l’intelligenza di partire con artisti meno di moda in quel momento come Paolo Icaro, ora uno degli artisti italiani più vivaci. Sono riusciti a trovare un giusto equilibrio tra riscoperte e nuove proposte, che è forse la strada vincente per le gallerie di fascia media.

A.M. Forse non ha quasi più senso dove sia ubicata una galleria perché ormai tra fiere e comunicazione generale anche quelle dislocate in luoghi non centrali riescono a internazionalizzarsi. I momenti di incontro ormai avvengono alle fiere dove è ancora fondamentale il contatto diretto tra collezionista e gallerista. Non solo è importante vedere le opere dal vivo, ma lo è di più il fatto che tutta quella comunità si ritrovi e ritrovi i collezionisti, cogliendo in pochi giorni il panorama di quello che accade nell’arte.

D.E. Le fiere sono e resteranno un momento fondamentale. Il futuro? Le gallerie occidentali non devono chiudersi territorialmente, ma guardare oltre, soprattutto verso l’Asia che altrimenti si farà il proprio mercato.

Danilo Eccher

Lo stand ideale ad Art Basel di Danilo Eccher

Non è facile stupire, interessare e coinvolgere un pubblico così preparato in pochi giorni e tra le centinaia di stand e le migliaia di opere. Mi piacerebbe vedere stand consapevoli dell’importanza della «messa in scena» dell’opera, attenti all’impaginazione narrativa dei lavori, non solo all’esposizione delle opere. Vorrei che gli stand fossero affidati a giovani curatori capaci di leggere e confrontarsi con gli spazi e con gli artisti. Vedrei volentieri uno spazio pop-barocco di Francesco Vezzoli, una fitta quadreria di Cecily Brown, una stanza per i manichini di Yinka Shonibare, un ambiente immerso di Tony Oursler ma anche una wunderkammer di Luigi Ontani o un pavimento di polline di Wolfgang Laib e, visto che è il suo momento, un’installazione di Wael Shawky.

Anna Mattirolo

Lo stand ideale ad Art Basel di Anna Mattirolo

Oggi proporrei esperienze immersive stranianti e vibranti di colore cominciando dai ricordi romani di De Kooning o dai lucidi riflessi dell’acqua delle piscine di Hockney. Entrerei fisicamente in altri mondi, inattesi e immaginari, per misurare un’esperienza personale in diversi e sorprendenti scenari: proiettata in un ambiente caleidoscopico di Yayoi Kusama e di seguito nell’universo di «Sip My Ocean» di Pipilotti Rist con i suoi giochi di sdoppiamenti, scomparse e ricomposizioni. Mi addentrerei nella dimensione ultraterrena transitoria e complessa di Pierre Huyghe, tra umano e non umano, materia organica e intelligenza artificiale. E poi di nuovo al cospetto della figura umana con il suo potenziale espressivo delle sculture di Schütte accanto a quelle poetiche e preziose di Marisa Merz che celano nella loro trama sempre qualcosa di profondo e segreto. 

Giorgio Guglielmino, 11 giugno 2024 | © Riproduzione riservata

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