Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

1982: Mazzoli e Jean-Michel Basquiat

Image

1982: Mazzoli e Jean-Michel Basquiat

Emilio Mazzoli: «La mostra che preferisco è quella che devo ancora fare»

Il mercante modenese racconta le sue passioni divoranti, in primis per i libri (ne possiede 100mila). Il suo ingresso nel mondo delle gallerie grazie a un professore di religione, poi arrivarono la Transavanguardia e Basquiat...

Stefano Luppi

Leggi i suoi articoli

«Sono stato nella mia vita un Fitzcarraldo che ha sempre voluto scavalcare le montagne. Negli anni Sessanta noi ci vendevamo le opere d’arte tra di noi, eravamo tutti disgraziati, colti e c’erano anche tanti mezzi ladri con gli artisti che potevano esserne vittima. Potrei fare nomi e cognomi, li conoscevo da vicino tutti a Milano e a Roma».

Emilio Mazzoli
(Modena, 1942), tre figli maschi di cui due galleristi tra Modena e Berlino, uno dei più celebri galleristi d’arte al mondo, tra fine anni Settanta e inizio degli Ottanta capace di «inventare» la Transavanguardia con Achille Bonito Oliva e di presentare nel 1981, per la prima volta al mondo in una personale, Jean-Michel Basquiat (1960-88), allora noto come Samo, si racconta a «Il Giornale dell’Arte».
IMG2023110215295154_130_130.jpeg
Ogni giorno al pomeriggio, nonostante problemi di deambulazione e qualche altro acciacco, il gallerista si reca in un ufficio «antro» con pochi libri e quadri a terra, posto dietro lo storico spazio espositivo di via Nazario Sauro, qui dal 1981, che porta il suo nome. Mazzoli pensa al personaggio citato in apertura, quel José Fermín Fitzcarraldo, barone irlandese realmente esistito che tratta in caucciù, capace di smantellare e ricomporre una barca grazie all’aiuto di tribù indigene, divenuto nel film di Werner Herzog del 1982 l’impresario Brian Sweeny Fitzgerald detto Fitzcarraldo che vuole costruire un teatro d’opera nella giungla per fare cantare Enrico Caruso davanti agli indigeni.

Mazzoli, una vita tenace la sua, come quella di Fitzcarraldo. Com’è arrivato al mondo dell’arte?
Ma no (Mazzoli ha l’abitudine di utilizzare la negazione come intercalare iniziale di ogni concetto espresso), la mia è una vita normale fatta soprattutto di passioni divoranti per i libri, anche preziosi: a casa mia ne ho almeno 100mila anche se sto avendo difficoltà a realizzare una struttura adatta a contenerli. Apprezzo molto anche la poesia tanto da avere frequentato e pubblicato autori come Paul Vangelisti, Nanni Cagnone, Gabriel Magaña Merlo, Jack Spicer, Vladimir D’Amora, Paul Wühr, Giulia Niccolai, George Oppen, Nanni Balestrini e Richard Milazzo. E poi c’è l’arte, ma lì non avevo troppa passione, almeno da ragazzo figlio di Augusto Mazzoli, un impiegato morto troppo presto e di Elena, casalinga, cresciuto in una famiglia borghese di provincia con due sorelle, Anna e Franca che mi hanno coccolato tutta la vita. Ho frequentato le Magistrali e avevo intenzione di compiere studi classici, ma ben presto ho iniziato a insegnare per i Salesiani e da metà anni Sessanta, a Roma e Milano, ho iniziato ad avere per amici gli artisti. Ho cominciato allora a interessarmi di arte e ad esporre. Ma appunto non avevo questa passione divorante, me ne fece interessare il mio professore di religione che era esperto e frequentava un cenacolo del tempo, la Galleria Mutina di Mario Roncaglia, dove c’era un altro parroco, don Casimiro Bettelli, che poi mise insieme un’importante raccolta successivamente donata al Comune. In quel periodo realizzai una prima mostra in un importante hotel modenese, il Real Fini, vendetti i quadri e capii che mi piaceva una vita priva di orari predefiniti, una vita di sogni e di passioni vissuta però qua in provincia. Non mi è mai tanto piaciuto muovermi, preferisco stare tra i libri e la creazione artistica.
IMG2023110215252419_130_130.jpeg
Che cos’è per lei Modena, la sua città?
Io non ho mai visto la provincia come la vedeva lo scrittore Edmondo Berselli, io ho visto la città in cui si è riversata la campagna dopo l’ultima guerra mondiale e dove c’era la divisione tra la parte intellettuale e quella operaia, nei due lati della via Emilia. Nel primo ’900, fino agli anni ’40, c’è stata qui una superproduzione culturale perché esisteva una importante borghesia intellettuale, penso a figure come Antonio Delfini, Angelo Fortunato Formiggini, Enrico Stuffler, borghesia che però nella Modena postbellica si è via via perduta. Come successivamente racconta appunto Berselli è arrivata la Modena delle canzonette, del Beat e oggi non mi pare ci sia molta cultura e molto dialogo, con la gente che preferisce chiudersi in casa.

Pessimista?
No, io credo nel futuro, il mondo sta andando molto veloce, ma l’arte importante è sempre contemporanea. Il Romanico resiste ed è qui con noi oggi, tanta arte invece la si dimentica perché passa di moda: io alla fine ho capito questo, ho fatto comprare a poco artisti poi divenuti notissimi mentre io sono diventato benestante con i quadri che non sono riuscito a vendere nel tempo. Resto a Modena, dove voglio essere seppellito, la Modena che parlo attraverso la mia inflessione e che rappresento nel fisico.
IMG20231102152844697_130_130.jpeg
Con quali artisti ha iniziato a lavorare?
Con i primi amici che ebbi la ventura di conoscere, a Roma il mantovano Giulio Turcato (1912-95) del Gruppo degli Otto e a Milano Vincenzo Agnetti (1926- 81) che all’epoca si dedicava alla pittura informale e alla poesia e insieme a Enrico Castellani e Piero Manzoni era seguito dalla galleria Azimut. Nelle due città andavamo in giro insieme, a Roma soprattutto in piazza del Popolo e a Milano al celebre bar Giamaica a Brera e lì conobbi anche gli artisti delle mie prime mostre, Jannis Kounellis (1936-2017) che seguii per cinque-sei anni, Luciano Fabro (1936-2007), Claudio Parmiggiani (Luzzara, 1943) che all’epoca era molto giovane, Giulio Paolini (Genova, 1940). Poi negli anni della Transavanguardia sono arrivati Sandro Chia ed Enzo Cucchi e via via gli altri.

Lei racconta di un mondo che forse non c’è più. Quali sono le differenze principali tra gli anni degli inizi e il panorama espositivo odierno?
Anzitutto occorre dire che non è cambiata la base e le arti primarie sono sempre la musica, la poesia, l’architettura, la pittura, la scultura mentre la grafica, il cinema, il design sono importanti, ma sono forme d’arte secondo me derivate dalle prime che ho citato. Oggi gli artisti, ma non i poeti ad esempio, sono delle macchine da soldi: non ho nulla in contrario agli artisti controllati dalle gallerie, ma io ho sempre pensato che arte significhi passione, cultura e gioia di vivere. E c’è dell’altro. Oggi quasi tutte le gallerie d’arte vendono in conto deposito o in conto vendita mentre io da sempre acquisto le opere degli artisti che espongo, rischio in prima persona, altrimenti come fai poi a convincere altre persone a comprare? Come dicevo, l’arte è un po’ un modo di vivere, e questa caratteristica vale più del possesso: così io sono stato e sono un compagno di strada di questi autori, un allenatore degli artisti divenuto un po’ noto mio malgrado. Ma ho sempre seguito la mia linea e mi è sempre andata bene così: se avessi voluto, dopo i rapporti stretti con Kounellis, che esposi a Modena per la prima volta nel 1970, dopo una decina di anni di attività avrei potuto chiudere la mia carriera e magari con la proprietà di dieci opere di questo grande nome sarei stato molto potente.
IMG2023110215260026_130_130.jpeg
Nessun rammarico dunque?
Alcun rammarico, anzi forse solo quello di non essere riuscito a far realizzare le porte del Duomo di Modena a qualche artista che seguivo, ma del resto a Milano bocciarono Lucio Fontana e le porte le fecero realizzare da Luciano Minguzzi. L’americano Basquiat invece voleva proprio dipingere un palazzo a Modena, ma neppure questo è stato permesso all’epoca.

Veniamo alle sue gallerie, il suo primo spazio, Futura, aperto a Modena nel 1970 seguito nel 1977 dall’attuale Galleria Mazzoli.
Futura la aprii il 31 ottobre 1970 con una mostra personale appunto di Giulio Turcato, cui seguirono altre con Kounellis, Fabro, Paolini, Parmiggiani, Marinella Pirelli. Nel 1977 toccò all’attuale spazio, dove per primo esposi Agnetti e a seguire Mario Schifano, Giuseppe Chiari e Franco Fontana fino a che l’anno seguente, il 16 dicembre, toccò alla rassegna «Tre o quattro artisti secchi» con lavori di Chia e di Cucchi: quella mostra e il volume annesso, con testo di Achille Bonito Oliva, sono in pratica il manifesto della Transavanguardia. Vista la mia forte passione per i libri a tiratura limitata forse questo sono in definitiva, un editore. Con gli inizi della Transavanguardia comunque scommettemmo sul fatto che allora quasi nessuno pareva occuparsi di pittura e ci presero molto in giro. Nei molti anni seguenti poi si sono avvicendate mostre di Gino De Dominicis e Mario Schifano, due amici stretti, come anche Mimmo Paladino, Nicola De Maria, Francesco Clemente, Pier Paolo Calzolari, Alighiero Boetti, Robert Longo, Alex Katz, David Salle, Malcolm Morley, William Anastasi, Piero Pizzi Cannella, Giuseppe Gallo, i fotografi Harry Kipper e Gregory Crewdson, il cantautore americano Devendra Banhart, di cui ho presentato la prima mostra personale, Wainer Vaccari, Carlo Benvenuto, Nicola Samorì e numerosi altri visto che in tutto le mostre licenziate sono oltre 150 finora. Tra le ultime anche quella di Mike Bidlo, artista che ha fatto innamorare lo chef Massimo Bottura, modenese che è sempre disposto a imparare ed è molto maturato nel tempo grazie alla sua passione per l’arte contemporanea.

Un artista preferito tra i tanti?
Vorrei ricordare Schifano, un grande artista che ho fatto lavorare al meglio e al quale sono stato vicino anche quando molti lo trattavano da lebbroso e mi calunniavano dicendo che gli portavo la droga. Oltre a lui anche Basquiat l’ho seguito fino alla fine, comunque gli artisti li ho sempre aiutati.
IMG20231102152636389_130_130.jpeg
Quella del rapporto tra lei e Basquiat è storia nota: lei lo espone, noto solo nel mondo underground di New York come Samo. Poi l’artista torna a Modena l’anno seguente già notissimo e conteso dallo star system americano con il suo vero nome. Dipinge per lei otto lavori (ma si vocifera fossero di più e alcuni non vennero catalogati) poi mai esposti per litigi con la gallerista americana Annina Nosei. L’estate scorsa la Fondazione Beyeler di Basilea per la prima volta li ha riuniti con il titolo di «Modena Paintings». Lei non ama parlare troppo di queste vicende, perché?
La Beyeler mi aveva invitato gentilmente alla mostra, ma non sono andato a Basilea, non avevo molto interesse per quell’appuntamento anche perché su questa vicenda si sono dette troppe cose e molte soprattutto sbagliate. È vero che ci furono dei problemi con l’artista e con la gallerista Nosei, ma è falso, ad esempio, che ci siano delle opere dell’artista dipinte a Modena e non rendicontate o pagate all’epoca. Non è vero neppure che mi approfittai di Basquiat, anzi: dopo aver visto i suoi lavori in America alla mostra collettiva «New York/New Wave» al PS1 di New York, oggi MoMA PS1, di Diego Cortez m’interessai e lo portai a Modena, gli diedi all’epoca 10mila dollari e pagai le spese di viaggio e soggiorno in Italia a lui, a Diego Cortez e al compagno di Cortez. Jean-Michel aveva vent’anni, non era per nulla conosciuto e quella cifra oggi sarebbe pari a 50-100mila euro, ma sono contento, perché forse Basquiat se fosse sopravvissuto (e posso ben dirlo perché negli Usa lo frequentai fino alla fine, quando era dipendente dalle droghe) oggi verrebbe probabilmente massacrato.

Questa fetta di storia dell’arte avrebbe potuto prendere un’altra piega?
Come le ho detto, mi dispiace perché lui in quel periodo in città voleva dipingere dei palazzi che erano all’epoca color cemento, grigi, a pochi passi da casa mia in via Einstein. Ma appunto la politica e la burocrazia, con cui ho sempre avuto problemi, non lo permisero. Peccato, perché con le idee semplici, come dicevano don Mazzolari, don Milani e La Pira ci si fa capire da tutti. Almeno la mia educazione cattolica e la mia esperienza dicono questo, che occorrono competenze, scienza e coscienza e appunto parlar chiaro. Riguardo a Basquiat c’è poi un’altra vicenda raccontata in un libro recente (Basquiat. Viaggio in Italia di un formidabile genio, di Anna Ferri, Aliberti, Reggio Emilia 2021, Ndr) sospesa fra realtà e immaginazione. La bella vicenda di una figlia che ricostruisce la vita della mamma, ormai scomparsa. Rossana all’epoca era la mia assistente e capitava che accogliesse gli artisti e li assistesse mentre lavoravano. La figlia Anna ricostruisce la storia dell’ipotetico ritratto che Basquiat le fece durante la sua permanenza modenese. (È da escludere infatti che il pittore l’abbia ritratta e del resto nel catalogo della mostra di Basilea si dice che la modella ritratta nel dipinto «Woman with Roman Torso (Venus)» è la fidanzata che era a Modena nel 1982 con lui, Suzanne Mallouk che proprio lui chiamava Venere, Ndr). Ma non aveva senso non raccontare la storia della mia ex assistente modenese, capisco bene e condivido le motivazioni romantiche dei famigliari.

Detto tutto ciò, la domanda è forse scontata: che cos’è l’arte per lei?
Un po’ glielo ho già detto, è passione, è accompagnare gli artisti, è un linguaggio. È un sistema che nel Novecento, fino alla seconda guerra mondiale ha visto come capitale mondiale la Francia e poi lo è divenuta l’America, New York. Me ne accorsi anche io quando andai negli Usa per la prima volta, nel 1980, ma successivamente laggiù, a partire dal decennio successivo, sono arrivate la moda, la finanza e il denaro, le multinazionali. Oggi posso forse competere con Pinault o con Prada? Faccio cose diverse da sempre e tra cent’anni vorrei essere ricordato come un cittadino visionario dal linguaggio estremamente semplice che ha desiderato essere capito e che viveva nell’ossessione per i libri, anche se oggi come oggi fatico a leggere. Ai miei figli dico sempre di dimenticarmi e di vivere il proprio tempo anche se non è semplice perché ancora oggi un libro ha l’Iva al 4% mentre un quadro ce l’ha al 22%. Occorrerebbe cambiare. Molti galleristi fanno operazioni culturali, non economiche, ma l’Italia non ce lo riconosce mai. Se per i prodotti culturali l’Iva fosse all’8-10% con obbligo di fattura lo Stato ci guadagnerebbe.
IMG20231102152739493_130_130.jpeg
Quale mostra ha ora in galleria?
Fino al 2 dicembre abbiamo due personali, «Filosofo di cipria. Rosa dietro» di Vincenzo Cabiati e «Nuke Mars» di Marina Gasparini. La prima si compone di una quarantina di lavori in porcellana realizzati nel 2020-23 da cui emerge un’iconografia che deriva e si ispira alla storia dell’arte e al cinema: da Chardin, Boucher, Delacroix e Tiepolo a Fischli & Weiss, ai film «Marie Antoinette» di Sofia Coppola e «Barry Lyndon» di Stanley Kubrick. Nella rassegna dedicata a Gasparini sono ordinati 37 vasi-scultura policromi, realizzati durante un periodo di residenza dell’artista in un villaggio del Rajasthan, in India, ispirati al saggio Dalle Indie al pianeta Marte dello psicologo Théodore Flournoy dedicato al mondo di medium e sensitivi. La mostra che ho amato di più? La prossima che farò.

Stefano Luppi, 29 novembre 2023 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Alla Galleria Bper 39 opere (da Guercino a Ontani, da Jules van Biesbroeck a Klinger) illustrano il rapporto tra esseri mitologici e la condizione umana odierna

Alle Sale Chiablese oltre 100 opere dal Quattrocento al Novecento per un lungo excursus che pone al centro la bellezza del gentil sesso

Negli spazi della Fondazione luganese, due appuntamenti celebrano l’anniversario della raccolta dei coniugi che, in mezzo secolo, acquisirono oltre 250 opere da Balla a Warhol

Nel centenario della nascita il Museo di San Domenico, a Imola, riunisce una settantina di opere dell’artista che amava sperimentare con i materiali più eterogenei 

Emilio Mazzoli: «La mostra che preferisco è quella che devo ancora fare» | Stefano Luppi

Emilio Mazzoli: «La mostra che preferisco è quella che devo ancora fare» | Stefano Luppi