Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Stefano Miliani
Leggi i suoi articoli«Giotto ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, che niuna cosa dà la natura, madre di tutte le cose ed operatrice del continuo girar dei cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipingnesse sì simile a quella». Ancora: «Molte volte le cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto». Lo scriveva Giovanni Boccaccio intorno al 1350, poco più di una decina d’anni dopo la morte del pittore, nella quinta novella della sesta giornata del Decamerone intitolata a «Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore».
D’accordo, una citazione serve a dare un po’ di lustro, perciò forse vi domanderete, e legittimamente: perché prendere in prestito le parole del novellatore toscano? Non dubitate, colgono nel segno: da un lato ci informano che il pittore fu subito riconosciuto dai contemporanei; in secondo luogo, ci dicono che sapeva raffigurare il mondo così come lo percepiscono i sensi e la mente, in modo realistico, sovvertendo le astratte fissità della pittura bizantina. Per verificarlo immaginate il «Compianto sul Cristo morto» negli affreschi nella Cappella Scrovegni a Padova, laddove l’artista raffigura i sentimenti dei protagonisti per una morte crudele che ferisce l’umanità: dolore, disperazione, pianto, furore, severa accettazione, incredulità, dispiegando un rosario di gesti e moti al quale guarderà poi gente come Masaccio, Michelangelo, fino a Picasso. Allora possiamo domandarci: da dove saltava fuori uno che nella sua arte immetteva un altissimo senso della dignità dell’uomo, come scriveva Cesare Brandi nel 1938? Una versione ce la consegna il celeberrimo aneddoto della pecora narrato da Lorenzo Ghiberti nei Commentarii intorno al 1450, ripreso da Giorgio Vasari nelle sue Vite, e che verrà richiamato da un marchio di pastelli e fogli da disegno. Siamo a Vespignano, nel Mugello: «In su passando Cimabue pictore per la strada di Bologna vide el fanciullo sedente in terra et disegnava in su una lastra una pecora. Prese grandissima amiratione del fanciullo, essendo di sì piccola età fare tanto bene». E con il consenso del padre, «poverissimo», il maestro prese il ragazzo come discepolo. Un documento trecentesco recuperato dallo storico dell’arte Miklós Boskovits vuole invece che il genitore fosse un fabbro e che spedì il figlio in una bottega di lanaioli; inutilmente, perché il ragazzo si fermava sempre dal pittore, ma siccome la storiella è stampata nella memoria collettiva, partiamo da qui per conoscere, con Luciano Bellosi, chi era questo talento formidabile.
Professor Bellosi, nel 1985 lei ha scritto un libro considerato determinante per gli studi sul pittore e intitolato per l’appunto «La pecora di Giotto». Quanto c’è di vero, nell’aneddoto di Ghiberti?
Probabilmente l’aneddoto in se stesso, come tutti gli aneddoti, non corrisponde nei particolari alla verità, però sono convinto che ci deve essere qualcosa di vero, soprattutto perché lo scrisse Ghiberti, sempre così preciso nel dare notizie su pittori del Trecento. Se ne possono estrarre due verità: primo, Giotto era allievo di Cimabue. Per quanto non sia assodato, ne sono certo e Ghiberti dà un appiglio forte. Inoltre negli affreschi più antichi Giotto usava una tecnica di chiaroscuro simile a quella del suo maestro. In secondo luogo, il ritrarre una pecora allude a una pittura come appello al realismo, contro la concezione simbolica e misticheggiante avuta fino ad allora e che era in parte dello stesso Cimabue.
Il giovanissimo pittore era figlio di un pastore, come dice Ghiberti?
A questo non darei molto peso, anzi, ora sembrerebbe che Giotto sia nato a Firenze da un artigiano e non nel Mugello. Diciamo piuttosto che nella maturità salì talmente nella scala sociale che possiamo considerarlo alla stregua dei borghesi di allora: c’era una perfetta identificazione tra lui e la committenza borghese fiorentina, senza dimenticare che lavorò per principi, re, papi, signori.
E il nome è quello autentico?
Sì, Giotto di Bondone è vero.
Giotto ha «fondato» la pittura italiana moderna. In che modo? Può indicare un dettaglio per farcelo capire?
Intanto tutti i suoi contemporanei e scrittori del Trecento gli hanno riconosciuto la posizione di rinnovatore dell’arte italiana in senso realistico. Pensiamo solo alla citazione del Boccaccio sul fatto che (con un’ideologia che viene dagli antichi) si potevano prendere per vere le cose dipinte da lui… Guardiamo allora un’opera molto giovanile quale è il Crocifisso di Santa Maria Novella: per la prima volta si sente il peso, la corporeità, del cadavere sulla croce, è un’opera emblematica al punto che alcuni la rifiutano come sua perché troppo realistica.
Questo realismo si manifestò nelle pareti della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi, nel ciclo d’affreschi reputato un giro di boa.
Le «Storie di san Francesco» sono ambientate e caratterizzate in modo molto moderno e realistico, con momenti e spunti un po’ episodici, ma questo era molto probabilmente dovuto alla volontà di raccontare di san Francesco in forma più quotidiana, meno sublime di quanto non richiedessero le storie di Cristo, della Madonna e dell’Antico Testamento. Anche perché era un santo recente, era morto nel 1226 e, a fine secolo, qualcuno poteva perfino ricordarselo.
Quello del «realismo» era un dibattito circoscritto alla sola pittura?
Nient’affatto. Dante, nato uno o due anni prima di Giotto, discuteva dello stile da usare a seconda delle composizioni. La Divina Commedia si chiama «commedia» perché il poeta non la considerava né una tragedia né troppo popolaresca, ma un testo in cui sono presenti ambedue gli elementi. Questa interpretazione di san Francesco come personaggio da commedia (nel senso appena detto) fa sì che il racconto assisiate sia effettivamente ricco di aneddoti, di un realismo più forte e intenso. Restando ad Assisi pensiamo alla scena del «Presepio di Greccio»: qui i cantori hanno la fisionomia un po’ stravolta dal canto e vediamo i denti, vediamo le vesti delle figure contemporanee all’epoca di esecuzione tanto che, studiando gli abiti, possiamo datare gli affreschi. Anche le architetture sono contemporanee, gli spazi sono a volte luoghi reali come nella scena dell’«Omaggio di un uomo semplice» in cui un uomo stende un manto ai piedi del santo perché passi e compare la piazza di Assisi con il palazzo comunale e con il tempio romano di Minerva: è un vero ritratto d’ambiente. Anche il santo non viene più interpretato come un idolo astratto, come accadeva nel Duecento, per quanto abbia un aspetto molto clericale: lo notò anche Pasolini, deluso però dal vedere quest’uomo così pio reso più piccolo di quanto non se lo immaginasse.
Su Assisi resta una questione essenziale irrisolta: studiosi, prima tedeschi, ora soprattutto americani e inglesi, asseriscono che Giotto non sia nemmeno stato nella Basilica superiore; un filone di pensiero attribuisce le storie francescane al romano Pietro Cavallini e a quella scuola per la somiglianza con il suo Giudizio universale nella chiesa di Santa Cecilia in Trastevere. Al contrario, lei e molti altri storici dell’arte, perlopiù italiani, siete convinti che la paternità del ciclo francescano vada a Giotto.
Chi non lo crede guarda alla Cappella degli Scrovegni a Padova e a un confronto, è vero, la decorazione nella Basilica superiore somiglia più a Cavallini che non agli affreschi padovani: questo avviene perché l’artista romano si era basato proprio sulle pitture di Assisi e perché nella Basilica superiore Giotto lavorò da giovane, un Giotto assai diverso da quello che anni dopo sarà a Padova. Oltretutto alcune differenze sono dovute a fattori tecnici, pratici: ad Assisi la committenza esigeva un lavoro molto rapido per cui il pittore si era circondato anche di aiuti che hanno abbassato il livello esecutivo, talvolta modesto, mentre le idee sono sempre straordinarie. Agli Scrovegni invece la presenza degli allievi fu molto minore. Ancora: a Padova le storie hanno un tono più alto e sostenuto perché raccontano di Cristo e di Maria, cioè dei personaggi più sacri del Cristianesimo, non di un santo quasi contemporaneo.
Lei ha citato il cosiddetto Maestro di Isacco: per la maggioranza degli studiosi l’autore delle due scene sul profeta e di altre storie dall’Antico Testamento, sempre ad Assisi, è un artista romano.
È semplicemente Giotto giovane.
Per gli affreschi della chiesa superiore di San Francesco anche Federico Zeri sosteneva l’ipotesi di Cavallini e della scuola romana.
Però Zeri non l’ha mai scritto in modo scientifico. L’ha detto in tv, l’ha scritto a livello giornalistico, non ha mai fatto un intervento scientifico e questo va considerato, perché una cosa è lo Zeri giornalista e showman, un’altra è lo Zeri storico dell’arte. Quanto alla preminenza della scuola toscana o di quella romana, la questione c’è, ma diventa di basso campanilismo.
Questo dibattito è davvero così importante?
Lo è come lo era stato quello su Omero, l’Iliade e l’Odissea. Gli ellenisti dicevano che le due opere non potevano essere state scritte ambedue da Omero perché il poema su Ulisse è troppo diverso. Stabilirlo è un fatto che riguarda la cultura occidentale. Con Assisi s’è creata una situazione simile.
La discussione riguarda anche il periodo in cui il ciclo è stato dipinto: abitualmente si ritiene nei primi anni Novanta oppure intorno al 1296 e oltre, poiché è l’anno in cui fu eletto padre generale dei francescani quel Giovanni da Morrovalle che il Vasari nelle sue «Vite» indica come committente delle 28 scene della storia francescana. Lei come la pensa?
Proprio recentemente ho proposto che gli affreschi della Basilica superiore, dalle Storie di Isacco a tutte quelle di san Francesco, siano stati eseguiti molto prima di quanto solitamente si crede. Niccolò IV, primo pontefice francescano negli anni dal 1488 al 1492, ha voluto la decorazione della Basilica superiore. Pensavo da tempo che Cimabue avesse dipinto i suoi affreschi nel 1288-90, Giotto nel 1290-92, nel ’93 e nel ’94 circa. Adesso ne abbiamo la conferma. Due studiosi inglesi (Donal Cooper e Janet Robson, Ndr) hanno trovato un trattatello del 1310 circa, scritto da frati francescani di parte conventuale in risposta agli spirituali che accusavano i primi di decorare le chiese con affreschi troppo splendidi tradendo così gli ideali di povertà dell’Ordine. Ebbene, nel trattatello i conventuali dicevano: non è vero che le nostre chiese hanno pitture troppo splendide tranne la Basilica superiore di Assisi, ma questa l’ha fatta dipingere papa Niccolò IV. È quindi una riprova dell’ipotesi che avanzavo in La pecora di Giotto e ora possiamo dire con sicurezza che Cimabue e Giotto dipinsero gli affreschi al tempo di quel pontefice.
Se paragoniamo Assisi con la Cappella degli Scrovegni è indubbio che in quest’ultima Giotto raggiunse il culmine. Non trova però che nel ciclo padovano alcuni passaggi, per esempio il cumulo di bambini nella «Strage degli Innocenti», sembrano rimandare a scene di guerra o disastri che vediamo oggi sui quotidiani o in tv (il pensiero corre ai fotogrammi sulla strage nella scuola di Beslan, sull’Iraq, sul conflitto israelo-palestinese…)?
Anche certe musulmane che piangono e sono vestite con abiti per noi arcaici le fanno somigliare alle donne di Giotto. Nel rappresentare il dolore, come nel «Compianto sul Cristo morto», l’artista assume un tono alto e tragico per cui le figure massicce recitano la compassione, il pianto, in modo molto solenne evitando l’espressionismo: una serietà profonda riesce per la prima volta a esprimere la sofferenza, ma con contenutezza.
Poco fa lei ha affermato che possiamo datare il «Presepio di Greccio» di Assisi guardando le vesti dei personaggi. Come vestivano, allora?
Indossavano abiti tipo tonaca colorati, lunghi e larghi, un po’ come quelli che portano ancora gli arabi. In quel momento la moda aveva anche connotazioni particolari, per esempio in un momento del Trecento alcuni uomini tenevano i capelli lunghi fino alle spalle mentre altri li tenevano arricciati a rullo dietro la nuca. Portavano copricapi che più tardi avranno da una parte una specie di fiore di stoffa che si chiamava «foggia», dall’altra un lembo che pendeva e si chiamava «becchetto». La prima grande variazione nella moda maschile, epocale, avvenne molto dopo, negli anni Quaranta del Trecento quando si passò a una sorta di antenato della nostra giacca e calzoni, una veste corta fino alle gambe coperte da calze aderenti che per noi diventeranno calzoni. Osservare gli abiti ci fa capire molto bene che la moda rappresentata nelle «Storie di san Francesco» è più antica rispetto agli affreschi di Padova ed è utile ricordarlo perché alcuni sostengono che quegli di Assisi sono successivi ai padovani, quando invece li precedono sicuramente. Ed è nelle «Storie di san Francesco» che si cominciò a raffigurare abiti contemporanei così come, nella Crocifissione nelle «Storie di Cristo», i soldati indossano armature del tempo di Giotto. È da allora, dai primi anni Novanta del Duecento, che la pittura italiana adottò la pratica di presentare personaggi in abiti dell’epoca dell’artista. I vestiti del tempo compariranno anche in scene non contemporanee a chi dipinge: penso a Masaccio, a Piero della Francesca fino al giovane Raffaello; poi Michelangelo abolì la veste contemporanea e faceva quasi solo nudi mentre i ritratti a Venezia continuarono a documentare l’evoluzione della moda.
Cambiamo registro e passiamo alla vita di Giotto: quanto ne sappiamo?
Sappiamo soprattutto quello che dicono le sue opere, in particolare per i primi tempi. Lavorò per i francescani, per il papa, andò più volte a Roma, nei primissimi anni del XIV secolo dipinse la Cappella Scrovegni per Enrico, che era un personaggio importante nella Padova di allora e ambiva forse a diventarne signore. A Firenze dipinse gli affreschi nelle Cappelle Bardi e Peruzzi, le principali famiglie di mercanti e banchieri della prima metà del Trecento, lavorò per i francescani di Rimini e, da vecchio, per il re di Napoli. Una fonte antica racconta che andò anche dai papi ad Avignone: non confermata, però si rifletterebbe nel polittico Stefaneschi dipinto per l’omonimo cardinale che si trovava nella città provenzale.
Umanamente che tipo era? Si dice fosse attento ai soldi e che abbia perfino
praticato l’usura.
Certo era un grande imprenditore, sapeva organizzare bene una bottega, il cantiere per gli affreschi, sapeva servirsi di pittori molto bravi. Quando tornò ad Assisi per decorare la Basilica inferiore gli affreschi vennero affidati a un pittore notevole, un fiduciario che lo storico dell’arte Giovanni Previtali chiamava parente di Giotto e che dipinse su disegni del maestro. Da bravo borghese pare fosse molto attento ai denari e, sì, che abbia anche prestato soldi a usura: è documentato abbastanza bene. Gli si attribuisce anche una canzone in cui dice peste e corna della povertà.
Quanto lo condizionarono i fatti storici dell’epoca? Da che parte stava?
Lo si potrebbe dire tranquillamente un guelfo. Era comunque a contatto con la borghesia guelfa fiorentina, lavorava in un periodo in cui tutta la Toscana era guelfa, anche Siena e poi Pisa. Ricordiamoci tuttavia che gli artisti lavoravano per chi glielo chiedeva, non potevano permettersi di prendere partito, non esprimevano idee politiche precise. I letterati avevano una coscienza politica più sostenuta.
Dante era nato intorno al 1265. Lo conobbe? Si incontrarono a Padova, come sembra?
Non lo sappiamo. Forse. Erano contemporanei: Antonio Pucci nel poemetto Centiloquio del 1373 scrisse che Giotto morì a 70 anni l’8 gennaio 1336 (il nostro 1337), per cui si cade intorno al 1266-7, un anno o due dopo la nascita del poeta.
Proprio Dante nell’undicesimo Canto del Purgatorio, composto intorno al 1310, in bocca a Oderisi da Gubbio mise quella terzina che sarà letta come una mannaia sulla reputazione del maestro dell’artista: «Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido, / sì che la fama di colui è oscura».
È molto importante che Dante sia stato il primo testimone del pittore e del suo sopravanzare il maestro anche perché il viaggio nell’oltretomba della Divina Commedia è collocato nel 1300, per cui va riferito a quell’anno: con Cimabue ancora vivo (morirà nel 1302), Giotto è considerato il pittore moderno. Rammentiamoci di quel parallelismo per cui letterati come Alighieri parlavano di riconquista del realismo.
Si fa largo l’idea che in arte il rinnovamento sia determinante, in rottura rispetto alla plurisecolare immobilità della pittura bizantina?
Sì, è un aspetto che ammiriamo, fa parte della nostra cultura. Giotto ha dato origine alla pittura moderna perché, seppur preceduto in modo più blando da Cimabue, ha detto per primo che bisogna inventarsi cose nuove, ridiscutere tutto. Questa mentalità sarà importante in Italia, in Europa e varrà fino a Picasso e ai nostri contemporanei: ognuno cerca di inventare qualcosa di nuovo e chi è più nuovo è considerato migliore. La necessità di un rinnovamento continuo si applica anche a se stessi: Giotto per primo si rinnovava in continuazione, lo stacco tra Assisi e gli Scrovegni ce lo conferma.
In quale modo ruppe con la pittura arrivata fino a lui?
Lo si può verificare bene agli Uffizi, nella sala che accosta la Maestà di Ognissanti di Giotto, la Maestà di Cimabue e quella di Santa Maria Novella del senese Duccio di Buoninsegna, poco più vecchio di Giotto e molto attento alle sue idee. Negli anni Ottanta del Duecento a Firenze c’era questa specie di trio (ora sappiamo che Duccio trascorse in città un periodo prolungato negli anni Ottanta) intorno al vecchio Cimabue: dal dialogo dei tre scaturiva il rinnovamento della pittura italiana che già Cimabue aveva portato avanti rispetto alla pittura bizantina, che è quella di tutto il Duecento in Italia, molto astratta, connotata da paesaggi e architetture orientaleggianti che non avevano nulla a che vedere con le architetture di allora. Nel Crocifisso giovanile di San Domenico ad Arezzo Cimabue dipingeva quasi esclusivamente alla maniera bizantina, in quello della chiesa di Santa Croce a Firenze già si rinnovava verso un pittoricismo e una naturalezza maggiori, segno che ci aveva meditato sopra, però la grande curva del corpo di Cristo è un’esasperazione ripresa dalla pittura bizantina e accentuata in senso espressionistico. Nel Crocifisso di Santa Maria Novella, invece, Giotto andò oltre: evitò la curva e fece pendere il corpo dalla croce come un cadavere. Dopo tutti i pittori d’Italia faranno il Crocifisso così. È come un procedere: Cimabue immetteva delle novità non più solo bizantine, il pittore più giovane meditava ulteriormente sullo stesso principio e s’inventava un Crocifisso totalmente nuovo.
Un fortissimo elemento di innovazione di Giotto era anche il tentativo di rendere persone e spazi a tre dimensioni.
Sì, la sua riconquista della realtà consisteva soprattutto nella corposità delle figure e nello spazio tridimensionale rispetto alla completa bidimensionalità in cui restava costretto anche Cimabue.
E come realizzava tutto ciò?
Lo realizzava riutilizzando il metodo della pittura chiaroscurale del suo maestro, ma con una disciplina nuova: Giotto (parlo degli affreschi) immaginava una fonte luminosa unica, di solito in alto e di lato, per l’intera scena; quella luce faceva sì che il chiaroscuro diventasse chiaro nelle parti del corpo e degli oggetti da cui proveniva e che nelle zone opposte diventasse scuro. In questo modo l’artista realizzava un effetto di tridimensionalità delle figure e delle cose. Dopo ogni artista farà propria questa mutazione e la si può paragonare all’invenzione della ruota: una volta fatta tutti la usano perché troppo importante.
Questo atteggiamento «realistico» aveva un corrispettivo nel pensiero filosofico dell’epoca?
Gli aspetti astrattivi legati alla pittura bizantina riflettevano il neoplatonismo medievale: ciò che si vede con i propri occhi non è la realtà vera, che è quella dell’aldilà, di cui la realtà terrena è solo il modello imperfetto. Con Giotto si tornava a guardare alla realtà così come la controlliamo con i nostri sensi. Assistiamo in pittura a un cammino parallelo al pensiero contemporaneo, soprattutto attraverso filosofi e teologi come lo scozzese Giovanni Duns Scoto, gli inglesi Ruggero Bacone e Guglielmo di Occam (rispettivamente 1266 ca-1308; 1214 ca-1292 ca; 1280 ca-1349, Ndr): negavano la realtà degli universali, delle idee archetipiche che per il pensiero medievale esistevano nel mondo di là, sostenendo l’importanza dell’esperienza sulla terra.
Questo Medioevo, ricco di colori, cullava in embrione l’Umanesimo?
In qualche modo sì, anzi molti storici dell’arte ritengono che il Rinascimento inizi alla fine del Duecento con Giotto e, nella scultura, con Nicola Pisano. L’attenzione all’uomo è uno degli aspetti caratterizzanti della riconquista verso il realismo. Tuttavia nel Trecento rimasero aspetti ancora astrattivi in confronto a quanto accadrà nel Quattrocento e che rendono l’arte non ancora pienamente terrena: rimane per esempio il fondo oro, simbolo del fulgore del Paradiso, ed è un limite astratto che nemmeno Giotto supera.
La liberazione completa da quelle remore si avrà nel primo Quattrocento con Masaccio, Donatello e Brunelleschi; nelle Fiandre con Van Eyck.
Ricordando che appartengono all’artista anche le Storie francescane affrescate in Santa Croce a Firenze, per Giotto il rapporto con il francescanesimo fu decisivo.
Precisiamo: con quello conventuale, quello che delude Pasolini. È la parte della chiesa ufficiale, la meno rigorosa nell’interpretare l’ideale di povertà rispetto ai francescani spirituali che adottavano in modo fin troppo severo il pauperismo di San Francesco e rimproverano agli altri la concessione al lusso e di aver fatto cose che il santo avrebbe negato. Effettivamente gli affreschi di Assisi sono particolarmente sontuosi come non se ne trovano in altre chiese italiane del Trecento; le volte con gli evangelisti e i dottori della Chiesa hanno un fondo oro, tanto più eccezionale perché di norma si usava il blu oltremarino o di Prussia, meno costoso dell’oro.
Le pitture della Basilica assisiate sono un capolavoro, ciononostante le obiezioni degli spirituali non sembrano campate in aria: tanto splendore non tradiva san Francesco?
Sì, poteva sembrare uno schiaffo agli ideali pauperistici del santo e ancora oggi molti considerano la Basilica come un insulto a quei principi. Non era certo nelle intenzioni di Francesco avere una chiesa così grandiosa per contenere il suo corpo.
Poco fa s’è accennato all’Umanesimo, che significò anche un modo nuovo di guardare all’antichità classica. Giotto è stato a Roma e qui avrà visto l’arte e l’architettura antiche.
Certo, e questo si inscriveva in quella rinascita dello spazio tridimensionale di cui il Medioevo aveva fatto a meno. Analogamente a Cimabue, a Roma lui guardò anche l’arte tardoantica di cui c’erano molti esempi. Alcuni vedono nel romano Cavallini il maestro di Giotto, il primo a recuperare questa tridimensionalità, ma non è così.
Restando a Roma, per il prospetto sull’antico quadriportico della precedente Basilica di San Pietro in Vaticano Giotto realizzò un’opera ammiratissima ma sopravvissuta in pochi frammenti e nel suo insieme conosciuta solo attraverso disegni del Quattrocento: la Navicella che raffigura Cristo mentre salva gli Apostoli dal mare agitato (quella attuale è del Cinque-Seicento).
Era considerata la sua opera più importante. Ancora Leon Battista Alberti ne parlava con grande ammirazione, in pieno Quattrocento. Era un mosaico evidentemente eseguito con maestranze specializzate.
Perché fu cancellata?
Il mosaico fu distrutto con la vecchia San Pietro perché nel Quattrocento Giotto era ritenuto superato insieme a tutta la pittura del Trecento (siamo noi oggi a essere storicisti, attenti a tutta la storia, allora non c’era questa esigenza), sebbene per gli intellettuali rimase un grande nome. Infatti nella seconda metà del XV secolo a Firenze gli fecero un monumento in Duomo con un bassorilievo di Benedetto da Maiano e una lapide con testo latino del Poliziano; Michelangelo lo copiò in alcuni disegni e su questa onda arrivarono le Vite del Vasari dove Giotto incarnava il rinnovatore della pittura italiana, quello che darà inizio a tutta l’avventura. Le Vite, considerate Vangelo fino a metà dell’Ottocento, hanno reso un gran servizio alla sua fama.
Come si poneva l’artista rispetto al Gotico internazionale?
C’era un rapporto di ideali, in quanto è nel Gotico europeo che nascono idee di maggiore realismo, però non di stile: lui non aveva le stesse eleganze, salvo rappresentare architetture gotiche nelle storie francescane ad Assisi (ad esempio la chiesa nel «Pianto delle Clarisse»). Ora si tende a dimenticarlo perché questa parte è rovinata, però lì abbiamo le prime rappresentazioni dell’architettura gotica del tempo. È possibile che proprio osservando gli affreschi iniziati da maestranze oltremontane nella parte alta del transetto destro della Basilica superiore abbia acceso una lampadina nella sua mente: poi andò così avanti che certe sue idee saranno riprese dalla stessa pittura gotica del Trecento.
Che architetto fu? A Firenze gettò le basi del campanile accanto al Duomo che porta il suo nome, del quale fece in tempo a completare, presumibilmente, il primo zoccolo a partire dalla base. Per uno studioso come Alessandro Tomei è verosimile che abbia progettato lui il Ponte alla Carraia.
Era certo un architetto importante quando il Comune di Firenze lo richiamò da Napoli e gli affidò la direzione di capomastro dell’Opera del Duomo e la sovrintendenza alla costruzione della nuova cerchia delle mura. Non sorprendiamoci: i grandi artisti avevano capacità multiformi, erano in grado di superare il proprio limite specialistico e dedicarsi anche ad altre attività. Arnolfo di Cambio era scultore e architetto, molti scultori erano anche architetti, nel Trecento l’Orcagna sarà pittore e architetto, al pittore Taddeo Gaddi si attribuivano delle sculture…
In questo campo è stato altrettanto innovatore?
È difficile dirlo, non possiamo affermarlo. La pittura nel Duecento era legata all’Oriente e Giotto la cambiò da orientale a occidentale: «Rimutò l’arte del dipingere di greco in latino», scrisse Cennino Cennini a fine Trecento. Invece nella scultura e nell’architettura il collegamento con l’Occidente esisteva già nel Romanico e poi nell’arte gotica. Arnolfo era uno dei grandi architetti che fanno parte di questa storia precedente a Giotto stesso. Lo storico dell’arte Eugenio Battisti confrontò le decorazioni agli Scrovegni e il disegno con la parte bassa del campanile ravvisando una modulazione architettonica riferita all’architettura del tempo, gotica, poi riutilizzata nel campanile stesso. Possiamo allora dire che è piuttosto nella sua pittura che si compenetra l’architettura. Lo si vede ad Assisi e meglio ancora a Padova: inserì le scene affrescate in cornici che fingono di far parte dell’architettura reale mentre i pittori precedenti immaginavano quelle cornici pittoriche bidimensionali, decorative o vegetali.
Proprio agli Scrovegni rappresentò due «coretti» che sembrano vere cappelle con bifore gotiche e giudicati forse il primo effetto «trompe l’œil».
Sono considerati una specie di natura morta di architettura, dove l’artista doveva dipingere una storia: l’artista immaginò un arco sulla parete al di là del quale si vede un vano che sembra una sagrestia, un transetto, con una lumiera appesa e una finestra che dà sull’azzurro del cielo. È vero, è una prima volta in assoluto.
Torniamo al Duomo di Firenze. Un antropologo e un giornalista sostengono che i resti di uno scheletro rintracciato oltre 30 anni fa sotto la Cattedrale e la tomba in cui si trovavano quelle ossa appartengono a Giotto e, sulla base del cranio, hanno dichiarato d’aver ricostruito il calco del viso del pittore somigliante al presunto autoritratto nella schiera dei Beati nel Giudizio universale della Cappella Scrovegni.
Lasciamo stare. Già non penso affatto che quello del Giudizio universale sia l’autoritratto del pittore… Inoltre molto probabilmente l’artista fu sì sepolto sotto il pavimento del Duomo, tuttavia una testimonianza ci dice che la tomba stava nel lato opposto a quello in cui è stato trovato lo scheletro. Sono un po’ come le reliquie dei santi, non c’è molto altro da aggiungere.
Commercialmente potrebbe convenire trovarle ed esporle?
Se si trovasse davvero lo scheletro sarebbe un avvenimento, ma a Firenze ci sono tante di quelle cose da vedere che non farebbe una differenza commerciale significativa.
Quanto ha inciso nella sua arte l’essere cresciuto a Firenze?
Una personalità enormemente dotata si trovò in un contesto artistico molto sviluppato intorno a Cimabue e vicino al giovane Duccio. Va sempre ricordato che si parla di un rapporto a tre e non a due. Giotto spinse più in là l’elaborazione del linguaggio, ma gli altri due pittori non ne restavano estranei. Il clima culturale era adatto, la città fiorente, cresceva demograficamente e soprattutto l’arte era considerata fondamentale, la società, i mercanti, creavano ponti d’oro agli artisti.
Per concludere: qual è l’opera che la emoziona di più e perché?
Posso dirne una non da tutti considerata di Giotto?
Certo.
«L’omaggio dell’uomo semplice» nelle «Storie di san Francesco» nella Basilica superiore di Assisi perché è il primo ritratto riconoscibile di un ambiente nella storia dell’arte italiana. Come dicevo poco fa, il pittore immagina l’episodio nella piazza della cittadina umbra con il Palazzo comunale al quale ancora manca l’ultimo piano (la torre fu aggiunta nel 1305) e il Tempio di Minerva. Gli abitanti di Assisi probabilmente riconoscevano quella piazza. L’opera è ritenuta della bottega, viene attribuita anche al Maestro di santa Cecilia, invece credo che l’idea sia troppo moderna e nuova per venire assegnata a un pittore non in grado di concepire idee così avanzate. Aggiungo che l’idea ha avuto un grande seguito nella pittura senese dove si rappresenteranno i castelli com’erano: i pittori venivano perfino spediti a prendere appunti grafici per raffigurarli nella Sala del Mappamondo nel Palazzo pubblico. Concludo ricordando che in questa tradizione nascerà quel grande episodio senza eguali nella pittura europea, gli «Effetti del buongoverno in campagna» di Ambrogio Lorenzetti, sempre nel Palazzo comunale di Siena. Lo dico provocatoriamente, ne sono consapevole, ma l’ambientazione dell’uomo semplice di Assisi mi sembra un’idea di grande modernità.
Questa intervista allo storico dell’arte Luciano Bellosi (Firenze, 1936-2011) è inedita e risale all’autunno del 2004. Fu realizzata per una serie di libretti su letterati, artisti e scienziati toscani curata dalla redazione fiorentina de «L’Unità».
Il ciclo si interruppe prima dell’uscita del volumetto sul pittore.
Altri articoli dell'autore
Nuova pavimentazione, nuovi lampioni e una nuova, contestata pensilina: i lavori, costati 7,5 milioni, scatenano discussioni e malumori
Nella Rocca Albornoz e a Palazzo Eroli, a Narni, una settantina di sculture di uno dei maestri del Nouveau Réalisme per riflettere sul rapporto tra alto artigianato e creazione artistica
Il 6 aprile avrà luogo una commemorazione in ricordo delle 309 vittime del terremoto del 2009. Diamo conto della condizione di alcuni monumenti: il Castello spagnolo, le mura urbiche presso porta Brinconia, la Chiesa di San Marco e Palazzo Centi
La «culla» del francescanesimo era a rischio in quanto la soprastante cupola della Basilica di Santa Maria degli Angeli era preoccupantemente fessurata dal terremoto del 2016