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Camilla Bertoni
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«Non solo una perdita immensa per la città. Ma anche la perdita, dal punto di vista umano, di una donna estremamente libera, intraprendente e profondamente colta». Con queste parole il fratello Amedeo ha ricordato ieri, durante la cerimonia funebre, Hélène de Franchis, scomparsa nella notte tra sabato 5 e domenica 6 luglio all’età di 82 anni. Nata a Tangeri, in Marocco, era diventata cittadina veronese quasi per caso: con un neonato in braccio, il figlio Francesco Sutton, che lascia insieme ai molti nipoti, vi era approdata arrivando da Londra nel 1969 per restarci un anno, nelle sue intenzioni. Invece la fondazione della galleria Studio la Città, allora in vicolo Samaritana, poi ai Filippini e infine nella sede dismessa delle storiche officine Galtarossa, ha finito per coincidere con il suo destino, ma anche con quello della città di Verona nella quale ha portato il vento della contemporaneità, e dove, al di là delle mostre in galleria, è riuscita a portare a compimento operazioni come le esposizioni della collezione Panza di Biumo nella sede del Palazzo della Gran Guardia.
L’avevamo intervistata per «Il Giornale dell’Arte» in occasione della mostra con cui, nel 2020, aveva voluto celebrare i cinquant’anni della sua galleria diventata in breve un punto di riferimento culturale, non solo per Verona, che ha sempre fatto fatica a confrontarsi con l’avanguardia, ma anche per una platea molto più ampia di collezionisti, artisti, critici, storici, istituzioni museali, fiere, con cui lo Studio la Città ha collaborato, seguendo il filo di quello che Hélène de Franchis, in quell’intervista, aveva definito «la libertà di approfondire la conoscenza». «Quello che non ho venduto», si chiamava la mostra del cinquantenario, un titolo ironico, come quello con cui aveva battezzato la mostra dei 35 anni, «Je ne regrette rien», che la gallerista spiegò con l’idea che forse ciò che era rimasto nel suo magazzino la rappresentasse più di ciò che invece era andato venduto.
In quelle mostre furono ripercorse le tracce di un cammino partito da Fontana, Colombo, Schifano, e poi Manzoni, Castellani, Paolini, Calzolari, Spalletti ed altri a cui si affiancarono altri artisti collegati al Minimalismo americano ed europeo, con Robyn Denny, Richard Smith, David Leverett, Ulrich Erben, Richard Tuttle, Sol LeWitt, Richard Smith, Robert Mangold.
«Una mercante d’arte visionaria, una fantastica conduttrice, una meravigliosa narratrice. È stato un onore conoscerla. Attraverso di lei ho incontrato il mondo», scrive sul sito della galleria Jacob Hashimoto, l’artista al fianco del quale Hélène, a metà maggio, era a Siena per installare la mostra «Pank to the sky» al complesso museale di Santa Maria della Scala che sarà visitabile fino al 30 settembre. All’ultima mostra da lei inaugurata in galleria, il 7 giugno scorso, «Wind is no rush», con opere di Federico Borroni, Filippo Rizzonelli, Runo B, Diego Soldà e Arthur Duff, accanto a «Jocu Focu» di Davide Bramante, nonostante l’avanzare della sua malattia, lei c’era.
«Ho scelto sempre opere e artisti che mi dovevano prima di tutto piacere e non ho mai seguito la moda, raccontò nel 2020. Scegliere le opere e montare la mostra è la cosa che più mi piace del mio mestiere, e un mio allestimento equivale alla mia firma». Sempre, fino all’ultimo.

Hélène de Franchis nel 2013. Foto Michele Sereni
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