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Stefano Miliani
Leggi i suoi articoliIn Salento si scava nei villaggi fortificati Nel Salento verso la fine del Medioevo la nascita di villaggi fortificati, detti terre, fu strettamente condizionata dalle tecniche agricole, dai boschi, dalle foreste e paludi. Per capire come andò davvero non basta più scavare o spulciare archivi. Il direttore della scuola di specializzazione in beni archeologici dell’Università del Salento, l’inglese Paul Arthur, da anni ha messo in piedi ricerche che coinvolgono discipline come, ad esempio, la genetica, la storia dell’alimentazione da affiancare all’uso di tecnologie sofisticate.
Di ciò ha dato conto in un convegno organizzato e coordinato a dicembre dall’archeologo del paesaggio Giuliano Volpe all’Università di Foggia su «Storia e archeologia globale dei paesaggi rurali in Italia fra Tardoantico e Medioevo». E quel che l’appuntamento ha tra l’altro restituito è il profilarsi sempre più nitido di una archeologia multidisciplinare che gli studiosi definiscono «bioarcheologia».
«Il nostro censimento nel Salento, spiega Paul Arthur, consiste nella ricerca, localizzazione e caratterizzazione di tutte le testimonianze medioevali nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto, prestando attenzione non soltanto a villaggi, città, monasteri, chiese, cimiteri, ma anche al tessuto che le collegava, comprese le aree “naturali” come foreste e paludi e quelle antropizzate come i campi e la rete stradale».
Ricorrere a discipline non «umanistiche» non esonera dalla fatica dello scavare. Nel leccese il gruppo diretto dall’archeologo scava «nei villaggi abbandonati in località Scorpo, Apigliano, Quattro Macine, nel villaggio fortificato a Muro Leccese, presso monasteri di età bizantina (quello detto delle “Centoporte” a Giurdignano), e di età normanna a Squinzano». Occorre però precisare che cosa intende, Arthur, per Medioevo in Puglia: «Approssimativamente i mille anni compresi tra il 500 d.C. e il 1500 d.C. circa, che videro il territorio passare sotto il dominio bizantino prima, poi normanno, svevo, angioino e aragonese».
«Parte dei dati è già in una serie di musei a Muro Leccese, a Supersano e nel Museo storico-archeologico dell’Università del Salento a Lecce», e fin qui siamo nel novero di una pratica corretta ma tradizionale. Incluso il ruolo essenziale assegnato alla didattica. La novità dov’è? «È un progetto innovativo per la globalità dei metodi di ricerca applicata che cresce con lo sviluppo della disciplina, delle scienze e tecnologie», risponde.
Proprio l’elaborazione complessa di dati tramite l’informatica consente sia «visioni d’insieme dei paesaggi e insediamenti», sia «analisi dettagliate della genetica del popolamento e della vegetazione o di che cosa mangiava l’uomo medievale. Ma, conclude allarmato, la nostra è una corsa contro il tempo, in un mondo in sempre più rapido mutamento, con un paesaggio che già oggi poco rassomiglia a quello del passato più o meno recente».
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