Bianca Bozzeda
Leggi i suoi articoliGià senior curator alla Tate Modern di Londra e, prima ancora, curatore presso l’HangarBicocca di Milano, dallo scorso aprile, in pieno lockdown, Andrea Lissoni è il direttore artistico della Haus der Kunst (HdK) di Monaco di Baviera. Inaugurata in tempi bui dal regime nazista di cui fu roccaforte culturale, il museo è oggi una delle maggiori istituzioni internazionali dedicate all’arte contemporanea.
Annunciando la sua nomina, la stampa internazionale ha sottolineato anche la sua gentilezza, quasi fosse una caratteristica rara nel mondo dell’arte contemporanea. Si sente un pesce fuor d’acqua? Oppure la sua è una forma di resistenza?
È una forma di essere. Più che il pesce, forse sono come l’acqua, con la sua qualità di diventare ghiaccio ed evaporare quando necessario; senza però scomparire e, soprattutto, serbando memoria.
L’arte contemporanea ama gli spazi monumentali e ha una passione per il passato industriale: l’HangarBicocca, ad esempio, era una fabbrica e la Tate Modern una centrale elettrica. La HdK ha una storia diversa. Come si interagisce con uno spazio espositivo così ingombrante?
Molta storia dell’arte del Novecento che vorrei evidenziare ha a che vedere con il desiderio di sperimentare, e questo non ha mai avuto a che fare con il «White Cube». Da questo punto di vista, l’elemento architettonico della Haus der Kunst è una opportunità. Certo, si tratta di un’architettura monumentale, autoritaria, «maschile», ma quello che conta è l’approccio, le direzioni. Il passato storico tragico e perturbante non si può dimenticare, ma la struttura architettonica non è colpevole, è la macchina di propaganda a essere criminale. L’architettura è un’opportunità che va interpretata: l’incredibile imponenza della HdK è anche un’interessante ariosità.
Negli anni si è distinto anche per il suo approccio non categorico all’arte, attribuendo un’attenzione particolare al suono. Qual è il luogo del suono in un museo?
Lo spazio del suono è l’aria: è ovunque, ci permea. In ogni mostra c’è suono, è una condizione di partenza, che si tratti del rumore dei visitatori o dei video proiettati. Per me è una preoccupazione centrale: il suono come materia sensibile. D’altra parte il modo di stare insieme generato dalla musica è unico. Negli ultimi anni nessun altro medium come quello musicale ha accompagnato la storia dell’arte in modo più radicale e trasformativo. È importante che ci sia almeno una presenza di suoni nella programmazione museale: il ruolo della musica non si può ignorare.
Lei si interessa a quei processi creativi in cui la pratica è più importante della produzione finale. Come si combina questa tendenza con la storia «patrimoniale» del museo, che tradizionalmente mira alla conservazione dell’opera?
Bisogna spingere i limiti della conservazione. Alla Tate Modern abbiamo realizzato il progetto «The Reverse Collection», una performance sonora dell’artista Tarek Atoui. Il senso di quell’opera consiste nel momento performativo: per mantenerla in vita bisogna intrattenere i contatti con una comunità di musicisti, far rivivere l’esperienza sapendo che non sarà mai la stessa. Artisti come Joan Jonas, Philippe Parreno e lo stesso Atoui sollevano la domanda del «che cosa resta e come».
La HdK ha la particolarità di non avere una collezione propria. Le mancano le acquisizioni?
Mi mancano, certamente. Mi manca l’idea e la responsabilità di fare qualcosa che assuma senso e importanza per qualcuno in futuro. Quindi facciamo qualcosa pensando che qualcuno si porrà la questione di collezionare.
Ha sempre parlato del museo come di una piazza, un luogo di incontro. In questo momento, però, questo non è possibile. Cosa pensa della scelta di chiudere i musei, nelle circostanze attuali?
Nei mesi scorsi ho perso persone a me vicine, sia umanamente sia per affinità di interessi. Pensare che i musei siano luoghi sicuri è elitista: il museo è un organismo vivo, fatto di persone, e questo è troppo prezioso per essere messo a rischio. Il momento ci chiede di essere veramente cauti: su questo non ho molte riserve. Non credo ci sia molto da scherzare.
Che ricordo ha dell’HangarBicocca?
Quello di una stupefacente libertà nel generare un programma culturale. Libertà di fare scelte pesanti sia per quanto riguarda il tipo di proposta sia dal punto di vista simbolico. Ogni volta che vado all’Hangar mi emoziono. Mi è rimasto impresso anche il momento «traumatico» dell’installazione di Tomás Saraceno. È stato un momento importante anche in relazione alla tradizione milanese di sostenere forme d’arte diverse, come nel caso della generazione di Bruno Munari, e a seguire Nanda Vigo, Gianni Colombo, Davide Boriani o Franco Mazzucchelli.
Immaginando l’impossibile: con quale artista del Novecento le sarebbe piaciuto organizzare una mostra?
Sono tantissimi. Mi sarebbe piaciuto mostrare l’opera di Carol Rama con una prospettiva meno storica, oppure lavorare con Simone Forti e Dorothy Iannone. Credo sia importante mostrare le forme d’arte meno mostrabili. Alcune cose le faremo qui alla Haus der Kunst.
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