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Maria Sancho-Arroyo
Leggi i suoi articoliÈ interessante osservare come il calendario espositivo dei musei possa entrare in tensione con l’evoluzione del contesto politico. Mentre la nuova amministrazione Trump ha già manifestato l’intenzione di limitare le politiche di diversità, equità e inclusione (Dei), numerose istituzioni culturali negli Stati Uniti stanno inaugurando mostre dedicate ad artisti provenienti da comunità storicamente emarginate.
Un caso emblematico è la mostra «Elizabeth Catlett: un’artista rivoluzionaria nera», attualmente in corso alla National Gallery of Art (Nga) di Washington (fino al 6 luglio). Riunendo oltre 150 opere, tra sculture, incisioni, dipinti e disegni, l’esposizione ripercorre la lunga carriera dell’artista e attivista afroamericana, dai suoi primi anni a Washington, Chicago e New York fino alla sua prolifica attività in Messico, durata oltre sei decenni.
L’impegno di Catlett è sempre stato rivolto a denunciare le ingiustizie sociali vissute negli Stati Uniti e in Messico, con particolare attenzione alla condizione delle donne e della comunità afroamericana. Ciò che vediamo oggi nei musei è il frutto di scelte fatte diversi anni fa. Queste mostre sono, in gran parte, una conseguenza diretta della mobilitazione suscitata dal movimento Black Lives Matter nel 2020 e della volontà di rendere le programmazioni museali più inclusive e rappresentative. Tuttavia, mentre molte istituzioni culturali confermano il loro impegno a favore della diversità, non mancano segnali contrari. Il Museo de Arte de las Américas, ad esempio, ha recentemente cancellato due mostre dedicate ad artisti neri e Lgbtq+ per conformarsi alle nuove direttive dell’amministrazione Trump che vietano il finanziamento di iniziative Dei, una decisione che ha suscitato forte preoccupazione nel mondo dell’arte. Inoltre, una recente ordinanza esecutiva di Trump prende di mira direttamente la Smithsonian Institution e i suoi musei, imponendo restrizioni ai programmi che, secondo l’amministrazione, promuoverebbero «narrazioni divisive» e un’«ideologia impropria». Il presidente ha accusato tali istituzioni di contribuire a una riscrittura ideologica della storia americana, che metterebbe in cattiva luce i «principi fondanti» degli Stati Uniti.
Questa sovrapposizione tra un rinnovato slancio inclusivo da parte dei musei e un contesto politico che sembra muoversi nella direzione opposta evidenzia la discrepanza tra il tempo dell’arte e quello della politica. Le esposizioni richiedono anni di preparazione, mentre le agende politiche possono cambiare repentinamente. Viene spontaneo allora domandarsi: se oggi i musei cominciano a pianificare le mostre che vedremo tra cinque anni, come si adatteranno, o non si adatteranno, ai cambiamenti politici che ci attendono?
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