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Stefano Causa
Leggi i suoi articoliAscolano sulla via dei novanta, Tullio Pericoli è il maggior pittore italiano vivente. Ormai aspetto i suoi nuovi titoli con Adelphi come, anni fa, la musica di Battisti o l’ultimo libro di Daniele del Giudice.
Da un lato l’ultimo poderoso volume, con volti, mani e corpi di oltre un centinaio di personaggi tra Otto e Novecento, è uno spaccato della maturità di questo disegnatore, caricaturista e scrittore. D’altronde, e qui la posta raddoppia, la funzione Pericoli assoda l’inclinazione per le immagini; ossia per il dialogo parole immagini che costituisce la spina dorsale della casa editrice milanese fin dalle copertine.
Dell’eredità del lavoro di Calasso per Adelphi, il libro, un quadrato di quasi mille pagine, è un frutto esemplare; e, sebbene privo di testi, tutto da leggere. Tele e tavole, chine e acquerelli tra il 1991 e oggi. L’abbecedario mentale e sentimentale di Pericoli include Kafka, Picasso, Eco, Fellini, Joyce, Pasolini, Stevenson, Beckett, de Chirico, Proust, Pirandello o Borges.
Alcuni li ha conosciuti tenendoli in punta di penna (se esiste una fortuna iconografica di Eco, è stato Pericoli a tesserne le fila). In altri, come per Dostoevskij o Pirandello, non resta che ingaggiare una lotta con immagini precedenti. Ed è sempre un tiro alla fune tra ritrattista e ritrattato; tra chi guarda e chi è guardato; tra chi preme il grilletto e chi è al muro.
Ma quale affare diabolico sia un ritratto, che cos’abbia significato e come, oggi, torni svalutato dalla continua polluzione di selfie, nessuno meglio di Pericoli lo sa. Un ritratto è un gesto di amore interessato. Una presa di possesso (guardate come qui cresca modificandosi il volto da copertone ammaccato di Pasolini). La sanzione di un dialogo (come nel volto stratificato di Beckett). Un’esplorazione arguta e affettuosa (il nasone di de Chirico, l’epa regina di Gadda, il viso di Pirandello che buca il sipario).
In ogni caso, una lettura critica folgorante (come nel piccolo Proust tenuto per mano dalla madre, invisibile e sovrastante). Questo libro manca di un’introduzione o di qualsiasi apparato critico perché le immagini bastano a sé, covano il proprio commento (oltreché nella speranza che almeno per una volta il lettore non vada tirato per le orecchie come un bambino svogliato). Una volta provvisoriamente accantonato, aggiungeremo una pennellata al nostro ritratto di Pericoli avendo afferrato nuovi angoli brillanti del «Castello» o del «Nome della rosa». E non sarebbe male se, per un giorno, un mese o un anno, disattivassimo la fotocamera del cellulare.

«Jorge Luis Borges» (2018) di Tullio Pericoli
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