Gianfranco Fina
Leggi i suoi articoliSe siamo sinceri con noi stessi, dobbiamo ammettere che quando entriamo baldanzosi e entusiasti in un grande museo, qualunque ne sia il contenuto, osserviamo con molta attenzione le prime tre stanze, soffermandoci a guardare e a commentare, se siamo in compagnia, ogni oggetto proposto. Leggiamo le didascalie, ahimè troppo sovente mal illuminate, poste troppo in basso o in gruppetti lontani dalle opere, anche se ora è più pratico fotografarle e poi leggerle sullo schermo del cellulare, nostro indispensabile compagno di vita.
Le sale si susseguono, non sempre in maniera lineare, perché talvolta ci sono deviazioni che ci fanno perdere la logica del percorso, ma va bene lo stesso, il cammino prosegue lentamente da un’opera all’altra; verso la decima sala cominciamo a non leggere più tutte tutte le didascalie, e anche il nostro sguardo tende a soffermarsi solo sui soggetti particolarmente accattivanti e più famosi. Dopo circa due ore la nostra attenzione è ormai attratta per lo più dalle indicazioni delle toilette, del bar o dell’uscita.
La visita del megamuseo finisce così stancamente e con la sensazione di aver perduto qualcosa, un po’ come uscire a metà di un bellissimo film solo perché la poltrona era scomoda. Quando invece si ha la fortuna di entrare in un museo come il Courtauld Institute (Strand, Londra) il discorso cambia completamente: in un’elegante palazzina georgiana, le stanze di grandi dimensioni, ma non immense, sono poste su due piani, in una sequenza logica e praticamente obbligata, l’arredamento è elegante, con boiserie basse e colori chiari, pavimenti in legno, soffitti decorati e talvolta dipinti; l’impressione che offre è quella di andare in visita in una bella casa di un raffinato gentiluomo inglese.
Le opere proposte non sono migliaia, ma «solo» centinaia, tutte perfettamente restaurate, illuminate e descritte, in un paio d’ore si riesce a vederlo e a gustarlo completamente, all’uscita si ha un senso di soddisfazione ed appagamento. Naturalmente alle pareti sono appesi molti capolavori assoluti, che evitiamo di descrivere per manifesta inadeguatezza, ci limitiamo a ricordare i nomi degli autori più noti, in ordine alfabetico per non far torti a nessuno: Botticelli, Pieter Brueghel il Vecchio, Cezanne, Cranach, Bernardo Daddi, Degas, Gauguin, Goya, Lorraine, Lotto, Manet, Massys, Palma il Vecchio, Parmigianino, Pietro da Cortona, Pulzone, Reynolds, Rubens, Seurat, van Dyck e, ovviamente, van Gogh.
Naturalmente si tratta di attribuzioni certe e documentate e non quelle «generose» che troppo sovente ci tocca di incontrare nei musei minori in giro per l’Europa. Ma non solo di arte figurativa vive un museo, anche le cosiddette arti decorative o applicate (termine brutto) o minori (termine pessimo), devono apparire nelle sale con pari dignità e attenzione. Nel Courtauld ci sono ampie vetrine dedicate alla maiolica italiana del Cinquecento, con rari piatti di Urbino della prima metà del XVI secolo, altre dedicate agli avori del tre, quattro e cinquecento o ai delicati vetri di Murano, particolarissimo è il piatto veneziano del Cinquecento, in ottone, con intarsi in argento e niello, realizzato in stile moresco recante le armi dei Sagredo al centro.
I Sagredo, originari dell’antica Roma si trasferirono a Venezia già nell’840 e furono aggregati al Maggior Consiglio nel 1110; erano certamente tra le famiglie aristocratiche più influenti, ricche e potenti di Venezia potendo annoverare anche un doge e un patriarca tra i suoi membri. Gianfrancesco Sagredo (1571-1620) fu scienziato e filosofo, amico personale di Galileo Galilei che lo gratificò rendendolo uno dei tre protagonisti del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. La famiglia Courtauld, di origine francese e di religione ugonotta, fu tra le tante rifugiatesi in Inghilterra verso il 1680 quando l’intolleranza di Luigi XIV nei confronti dei protestanti sfociò nell’Editto di Fontainebleau.
L’attività della famiglia era rivolta alla produzione di argenti e questo impegno si protrasse, di padre in figlio, fino alla fine del XVIII secolo, così una grande vetrina è dedicata agli argenti realizzati dai Courtauld in stile rococò. I più bei «cassoni» scolpiti, dorati e dipinti, con alzata, del pieno rinascimento fiorentino ancora esistenti sono la coppia che si trova in questo museo-boutique nella sala centrale al primo piano, di fronte alla grande «Trinità» di Botticelli, dipinti sul fronte e sulla parte superiore con episodi della vita di Marco Furio Camillo, eseguiti da Biagio di Antonio, Jacopo del Sellaio e Zanobi di Domenico nel 1472 per il matrimonio di Lorenzo Morelli con Vaggia di Tanai de’ Nerli.
I de’ Nerli erano una delle più ricche famiglie di Firenze, imparentate con i Medici, questi cassoni nuziali furono portati in dote dalla moglie, insieme a 2mila fiorini d’oro, ma i soggetti dei dipinti furono probabilmente scelti dal marito, studioso e letterato. Anche la famiglia Morelli era una delle più importanti della Firenze quattrocentesca, legatissima ai Medici; il padre di Lorenzo, Mattia, era stato il padrino di battesimo di Lorenzo il Magnifico. Lorenzo Morelli coprì importanti cariche pubbliche, tre volte priore, due volte gonfaloniere di Giustizia, seppe destreggiarsi abilmente nel periodo di Savonarola e fu tra i consiglieri di Pier Soderini; trattò col cardinale Giovanni le modalità per il ritorno dei Medici a Firenze e fu ambasciatore a Roma quando Giovanni divenne papa Leone X.
Recentissimamente, il 17 agosto 2024, tutto questo ha rischiato di andare in fumo, perché in un’altra ala del palazzo è scoppiato un incendio che è stato spento grazie al pronto intervento di 125 pompieri; pare che la sera prima in quei locali si fosse tenuta una gara di break-dance. Domanda: con tutte le piazze, palestre, campi sportivi che ci sono a Londra è proprio necessario fare una gara di break-dance a ferragosto in locali contigui ad un museo così prezioso? O portare una serie di cromatissime Harley Davidson nelle sale della Venaria? O riempire di vestiti di Taylor Swift gli spazi, già superaffolati, del Victoria & Albert Museum?
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