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Copertina dell’album «Metropolis» (1981), di Francesco Guccini (particolare)

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Copertina dell’album «Metropolis» (1981), di Francesco Guccini (particolare)

Il dottor Divago | Filemazio va in classifica

Una nuova rubrica di Stefano Causa

Stefano Causa

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Non lo direste. Ma quarant’anni fa giravano ascoltatori disposti a sbucciarsi le ginocchia inerpicandosi lungo queste rime alternate: «sentivo i canti osceni degli avvinazzati di gente dallo sguardo pitturato e vuoto ippodromo, bordello e nordici soldati romani e greci urlate dove siete andati sentivo bestemmiare in alamanno e in goto». Non è il Flaubert antichizzante degli anni 1860 che al Musée d’Orsay si legge in vantaggioso contrappunto ai quadri pompier; semmai un Flaubert aggiornato al fuoco delle vicende italiane del terrorismo. Si obietterà: si poteva cantare di Filemazio brancicante e quasi cieco nel 1981?

Evidentemente sì; e non alle cene di un convegno di bizantinisti. Protomedico, matematico, astronomo (forse saggio), è protagonista di «Bisanzio» in apertura di un disco del padano Francesco Guccini, «Metropolis», il cui solo torto fu di uscire nell’anno della «Voce del Padrone» del siciliano Franco Battiato, tra i punti di svolta della cultura italiana di fine Novecento. Cosa condividono in apertura di decennio Guccini (uno e novanta, classe 1940) e Battiato: di cinque anni più giovane, sbarbato e lui, sì, bizantino? Niente. Salvo una cosa.

Suonati i quarant’anni, Guccini rinnova personaggi e luoghi della canzone italiana dando la mano al Pavese di Lavorare stanca e al Pasolini delle Ceneri di Gramsci. Meno filologicamente serioso ma altrettanto funambolico gli fa eco Battiato: «gesuiti, euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte dell’imperatore» (della dinastia dei Ming, segue in enjambement). Siamo, insomma, dalle parti di un liceo (classico) ben fatto con l’attualità che punge dentro e fuori le aule. Ma in modo opposto, a cominciare dalle copertine.

Per la soglia delle sette canzoni di Guccini, Francesco Lo Monaco disegna il primo piano di una mano che mostra una palla di vetro con dentro un modellino di città; sulla quarta di copertina nella palla, capovolta, cade la neve sui palazzi. Diverso e decisamente anni Ottanta l’artwork di Battiato, che figura seduto di profilo a un sole bianco tra palmizi (è il fido Francesco Messina che rielabora uno scatto di Roberto Masotti).

Per chi voglia indagare le oscillazioni del gusto del nostro passato recente, le classifiche costituiscono un indicatore prezioso. Piazzatosi alla ventitreesima posizione tra i più venduti del 1981 tra Ivan Cattaneo e i Pooh (mentre, ai primi posti, stazionavano Baglioni e Renato Zero). «Metropolis» è un disco puntuto che accompagna Dylan a bizantini veri o falsi raccontando di due città, Venezia e Bologna. «Bisanzio», che lo apre, è sghemba, ritmicamente sospesa; facile predire che, né ballabile né cantabile, non sarebbe diventata la hit di nessuno.

Sebbene presuma un ascoltatore non meno pronto a cogliere allusioni e doppi sensi «La Voce del Padrone» è sperimentale e accogliente (e non scontatamente ottimistico, considerando il decennio appena chiuso). Battiato fa un’operazione unica per la scena europea; Inghilterra inclusa. Riveste d’una guaina elettronica un pop rinfrancante e appiccicoso, che sembrava congedato sulle spiagge versiliane del «Sorpasso»; solo che al posto di pinne e watussi compaiono, vorticando dentro rime impossibili, Alan Sorrenti e Theodor Adorno, tic e idiosincrasie («a Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie»).

Ma mentre Guccini si ferma nel sottoscala della classifica perché non fa granché per venirti incontro, Battiato vola in classifica parodiando la sua indisponibilità ad allinearsi; riuscendo, in un upgrade senza precedenti nella cultura italiana, a far assaporare alla maggioranza l’orgoglio di essere minoranza. Il Guccini di «Metropolis» è progressive, carducciano e antico (in «Bologna» si colgono echi dalla sigla dell’«Almanacco del giorno dopo» di Antonino Riccardo Luciani). Battiato, invece, fa colludere sistemi espressivi opposti obbligandoli a coesistere in un autentico spasso musicale. Ma se sulla «Voce del Padrone» l’entusiasmo è unanime, «Metropolis» merita un riesame e un riascolto. Perché è anche la storia di due città. Rimanete connessi.

Stefano Causa, 05 aprile 2024 | © Riproduzione riservata

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