Stefano Causa
Leggi i suoi articoliIl colore rosso nell’Italia appena unita s’insedia definitivamente con le Novelle di Verga ed è subito sinonimo di carattere («Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo…»). Gli storici dell’arte, meglio se passabilmente cinefili, di rosso rame, color della rena o delle carote dovrebbero intendersene. Il Museo di Castelvecchio conserva un quadro di Giovan Francesco Caroto con un ragazzo dai capelli ramati con in mano un disegno (simile a quello scoperto sul muro in «Profondo rosso»). Dario Argento in salsa cinquecentesca veronese. Il pittore sfodera un nome somigliante al protagonista di un romanzo di Jules Renard (1864-1910). Un bambino dai capelli rossi e la pelle lentigginosa che ha il difetto di russare. Per questo la madre, con cui dorme incautamente per evitare brutti sogni, gli ficca due unghie «fino al sangue» nel più grasso d’una natica.
Tra pidocchi e merda sciolta nella zuppa, pernici da sacrificare renitenti a morire, gatti sparati alla testa per sport, talpe vive lanciate in aria dopo averci giocato e mosche che nidificano negli orifizi, non si capisce come uno dei culmini più sgradevoli e desolanti dell’800, Pel di Carota, sia diventato un libro per ragazzi. Anzi, tra i capolavori assoluti della letteratura per l’infanzia: come recita rotondamente la quarta di copertina per l’edizione Einaudi (1994). Uno status inattaccabile stando alle ristampe moltiplicatesi nel ‘900, corredate da copertine infantilizzanti e quasi sempre balorde. Merita almeno un soprassalto di attenzione quella del 45 giri di «Pel di Carota», dove, nel 1962, una diciassettenne Rita Pavone tiene in mano una bambola della ditta Ratti e Vallanzasca («meglio avere la testa rossa che la testa tutta vuota», canta con arrangiamento marziale e asciutto di Ennio Morricone). Ma qui siamo più dalle parti di Caroto (pittore), e di Dario Argento di là da venire, che del Pel di Carota di Renard.
Il quale, come Pinocchio, resisterebbe a ogni camuffamento bonario. Ugualmente da noi le molte spine del capolavoro di Collodi, il best seller della miseria nell’Italia post unitaria, venivano spuntate per i piccoli. E Pinocchio e Pel di Carota sono libri che si è deciso, con successo, di ricaricare a salve (un’operazione che non poteva funzionare altrettanto bene con Alice). Non che nel lungometraggio Disney del 1928, «Steamboat Willie» (Renard era morto da vent’anni), gli animali se la passino benissimo. Ma nei cartoni animati l’imperativo è esagerare tanto, come nelle risse di mezzo secolo fa di Bud Spencer e Terence Hill, tutti muoiono e nessuno si fa male. Pure l’epos di Gatto Silvestro, che rinasce tutte le volte, è legittimato dalle leggi e i principi di un parossismo stilistico.
Se si decide di imporre a valle, e non a monte, un certo target per un dato prodotto (ossia per l’idea che gli adulti si siano fatta di ragazzi di cui solitamente non sanno nulla), ne verrà condizionato il modo di presentarlo. Pel di Carota non è il Giamburrasca di Vamba alias Luigi Bertelli (1907) e neanche Pippi Calzelunghe della Lindgren (1945); siamo, piuttosto, ma in un clima opposto e più tardo, in zona Rosso Malpelo. Anche se Verga sta a Renard come il pugliese De Nittis sta al pittore di Losanna Félix Vallotton. Questi asciuga, minimizzando per amplificare. L’altro modella e lavora di spessori.
Uscito nel 1894 Pel di Carota corrode alla radice la sacralità dei vincoli familiari ma è contro tutto. Contro il Bello Stile e la Bella Pittura. Contro la frase articolata. Contro le sciccherie e contro gli effetti di superficie degli antichi e nuovi maestri. Renard contrae e asciuga. Ridotto in musica (ma solo per le dimensioni) sarebbe Erik Satie. Nessuno lo dice meglio di Sartre nel 1945: «È Renard il creatore della letteratura del silenzio…La frase di Renard somiglia a quegli animali solidi e rudimentali per i quali un unico foro funge da bocca e da meato». E corre a liquidare la prima obiezione: come lui Proust («certe lunghe frasi…di Proust sono in realtà assai brevi, perché ciò che esse dicono non si poteva esprimere con minor dispendio di parole»). «Come si può far stare il maggior numero di mattoni in un solo paniere?», chiedeva lo psicologo Pierre Janet. A raccogliere il guanto si provò Vallotton, questo svizzero di adozione francese (un Hopper prima di Hopper e per certi versi meglio di Hopper) illustrando, con una cinquantina di tavole, l’edizione di Pel di Carota, nel 1902. Decidete voi se ci riuscisse.
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