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La copertina del volume «Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani» (2003) di Luigi Baldacci

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La copertina del volume «Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani» (2003) di Luigi Baldacci

Il dottor Divago: L’Ottocento? Siamo noi

Divagazioni ottocentesche di Stefano Causa

Stefano Causa

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Ignoro quanto abbia girato tra gli storici d’arte in senso stretto né quanto abbia contato nelle ultime verticalizzazioni degli studi sull’800 un volume di Luigi Baldacci uscito pochi mesi prima della morte (Ottocento come noi. Saggi e pretesti italiani, Rizzoli 2003, 445 pagine). Storico della letteratura, collezionista di ‘600 fiorentino, appassionato di scultura negra, gran conoscitore di libretti d’opera, scomparso a 73 anni Baldacci è uno dei critici indispensabili del secondo ’900 (insieme ad altri quindici per uniformarci anche noi al canone di Pier Vincenzo Mengaldo).

Non sono uno specialista né saprei dire quanto abbia camminato questa raccolta di saggi e articoli, di epoche varie, che parlano di ’800 come nessuno aveva fatto prima con conclusioni che a me continuano a sembrare non negoziabili («l’800 ci consente un rapporto di fruibilità che non ha bisogno di mediazioni critiche; l’800 ha captato la vita, il ’900 no»). L’unica cosa di cui son certo è che questo libro di Baldacci, ahimè il suo ultimo, vanta il titolo perfetto. Non siamo mai usciti dall’800. Abbiamo bisogno dell’aneddoto, del plot che avvince, del tema che si imprima, si scolpisca in memoria. Orecchiabilità, cantabilità e riconoscibilità sono parole d’ordine. Canzoni da cantare sotto la doccia o al volante. Sotto questo aspetto performativo, da karaoke prima del karaoke, la Donna è mobile batte dieci a zero il Pierrot lunaire.

I nostri gusti letterari, figurativi e musicali odorano di ’800 lontano un chilometro. Non ci siamo mai mossi dall’800. Ne siamo intrisi, foderati, sagomati. Chiedete a un cinquantenne, rigorosamente vestito di abiti mentali analogici, un esempio di classico. Che si tratti di musica o letteratura facile, sicuro vi rimbalzerà sull’800. 

Vogliamo parlare dei palinsesti teatrali o di concerto? Hai voglia di «Carriere di libertini» di Stravinsky e di messe di Arvo Part; alla fine si va sempre a finire con Rigoletto e Turandot. Hai voglia della buona volontà del compianto Maurizio Pollini nel proporre Luciano Berio, Boulez, le Sofferte onde serene di Nono o i primi studi per pianoforte di Schoenberg. Alla fine si gira intorno a quella saccatura classico romantica, 1770-1830, che sembra non dover finire mai. I romanzi che si leggono oggi in Italia nascono come buone sceneggiature da fiction generalista, tra bastardi e amiche geniali. E funzionano, bene o male, proprio in quanto assecondano strategie narrative tardo ottocentesche. Ottocentesche sono le ultime letture memorabili che, per chi fosse legato a una memoria di carta, hanno coinciso con la nozione di classico (i russi; poi i francesi e gli inglesi). Ma chi annovererebbe tra i classici i Sonnambuli di Broch, la Morte di Virgilio, il Castello o Morte a credito di Céline?

L’800 è il secolo in cui il patto tra artista e pubblico si rinnova e si cementa ed è insieme l’ultimo in cui quel patto viene incrinato fino a infrangersi. È qui che avviene la rottura dei linguaggi figurativi tradizionali. Io intendo dove tu voglia andare a parare anche se sempre non tutto mi ritorna chiaro e distinto (nella «Colazione sull’erba» di Manet, 1863, una delle due donne è nuda ma ha un seno cieco; e la tavoletta di «Place de la Concorde» di Degas difficilmente la si potrebbe vendere in un servizio sulle piazze più belle). L’800 siamo noi. Anche nel rapporto costruttivo e capitalizzante col Passato. Bach è risorto per opera e passione filologica di Mendelssohn. L’800 ha riscoperto e messo nuovo carburante al Caravaggio; e da Napoli, Caravaggio pare non sia mai andato via. Pure, se si parla di napoletani, nessuno li conosceva meglio di Baldacci. Anche a proposito della truppa di secondo secolo, su cui certi affondi sono fulminanti: Matilde Serao descrive. Di Giacomo rappresenta. È detto benissimo (e vale anche per i pittori contemporanei). A riprova che spesso le cose migliori su Napoli provengono da chi napoletano non è.

Stefano Causa, 02 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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