Stefano Causa
Leggi i suoi articoliDifficile dire quanti da noi passeranno l’estate al segno di Misericordia di Benito Pérez Galdós: duecentocinquanta pagine senza un attimo di tregua, figurativamente densissime e che oggi vorremmo tirare dalla nostra parte come lezione sulla pittura spagnola. Difficile dirlo. Ma temo saranno in pochi a sporcarsi le ferie con questo urticante episodio di caravaggismo moderno che mescola, nel 1896, notizie fresche degli straccioni di Ignacio Zuloaga (1870-1945) e dei santi e mostri di Ribera e Goya giusto quando Picasso, adolescente talentuoso come altri, è già Picasso e non è ancora Picasso. Che, dal canto suo, non avrebbe mai avuto il coraggio di trascinare a Parigi, nei bassifondi stilizzatissimi di Toulouse-Lautrec, i pezzenti di Misericordia.
Autentici professionisti dell’accattonaggio compaiono, dalle prime pagine, mentre si distribuiscono in chiesa contendendosi, per anzianità e prestigio, i posti migliori dove arriverà l’obolo. Lo storpio, il cieco, un vecchio che «doveva avere il corpo di bronzo, e alcool o mercurio al posto del sangue». E diverse donne (una con «la faccia lunghissima come se gliela stirassero a macchina ogni giorno, schiacciandole le guance…, con gli occhi sporgenti, spaventati, senza né luce né espressione…il naso adunco, sgraziato; a grande distanza dal naso le labbra sottilissime, e infine la mascella lunga e ossuta…come un cavallo vecchio»).
Galdós sapeva di allinearsi dentro una filiera di cantori della miseria. Per chi sia sceso alle stazioni salienti del siglo de oro il rinvio è all’apparizione del dottor Cabra in avvio del Briccone di Quevedo, scritto quando Caravaggio sbarcava a Napoli la prima volta. Ma l’omaggio è privo dell’accumulazione caricata di quel capolavoro seicentesco. Come se, a distanza di quasi tre secoli, non si potesse dar luogo che a un Barocco disciplinato e senza gioie. I poveri sono poveri. Stracciati e insani di corpo e di mente. Potranno, al limite, abbozzare un sorriso per farsi compatire (come il mendicante di Ribera al Louvre dal piede equino e i denti marci che, a figura intera, ci sollecita in latino: «Fammi l’elemosina per grazia di Dio»). Ma alla fine dell’800 il soccorso alle metafore e alle immagini ingegnose non basta a redimere: né loro né il lettore.
Non sapremmo soppesare la fortuna italiana anche recente di uno scrittore sbrigato come capofila del realismo spagnolo ottocentesco per quanto abbia retto lo sforzo sino al 1920 (come molti maestri che costringiamo a forza in un secolo, sebbene morissero con uno o tutti e due in piedi in quello nuovo da Gemito a Degas). Uscito nel decennio dei Viceré di De Roberto, della Bocca del Lupo di Remigio Zena, del Paese di Cuccagna della Serao e di Senilità di Svevo, Misericordia di Pérez Galdós, epopea al rovescio di autentici virtuosi dell’elemosina viene solitamente presentato con la scorta di un’immagine di Goya. Qualche edizione offre addirittura la Parabola dei Ciechi di Capodimonte.
Ma la sola copertina che renda merito al romanzo e ne proponga un primo orientamento critico è quella Garzanti del 1991 con traduzione di David Urman. Presenta il dettaglio di un pittore, il catalano Hermenegildo Anglada Camarasa (1872-1959) di cui di solito non si parla se non in termini di «modernismo» sebbene Camarasa mancasse proprio quella sorta di Woodstock del modernismo che fu l’esposizione universale di Parigi del 1900. Vero è che Galdós e Anglada sono appunto il passato denso, scuro e intensamente mimetico del primo Picasso che torna a bussare; e che Picasso è riuscito a superare e a far dimenticare soprattutto a noi. Come nel gioco dell’oca è il caso, però, di tornare dal via. Con più misericordia.
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