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Rirkrit Tiravanija, «Untitled (The Savage Detectives)», 2025.

Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi.

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Rirkrit Tiravanija, «Untitled (The Savage Detectives)», 2025.

Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi.

In Aliens We Trust: le molteplici «credenze» di Rirkrit Tiravanija da Chantal Crousel

La mostra «In Aliens We Trust» di Rirkrit Tiravanija, presentata dalla Galerie Chantal Crousel a Parigi fino al 22 novembre, esplora temi di alterità, fiducia nell’altro e trasformazione culturale attraverso installazioni e pratiche relazionali

Nicoletta Biglietti

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«In God We Trust». Una formula amministrativa trasformata in dogma nazionale. Un sigillo di fede imposto nel pieno della Guerra Fredda, quando la paura dell’altro – del comunista, dell’infiltrato, dell’alieno interno – doveva essere neutralizzata con la religione come collante morale. Non un motto, ma un antidoto. Una difesa ideologica per riordinare la nazione sotto un’unica «certezza». È da questa storia che parte la mostra di Rirkrit Tiravanija, presentata dalla Galerie Chantal Crousel a Parigi fino al 22 novembre 2025, dove il motto americano diventa detonatore e punto di partenza per la riflessione. Con ironia e intelligenza, Tiravanija sovverte il motto nazionale, proponendo un nuovo principio: fidarsi dell’alieno, dell’altro, dell’outsider.

L’artista non lavora sulla derisione. Non interessa la caricatura. La sua pratica si muove sulla trasformazione: un testo culturale – sociale, visivo, rituale, materiale – viene spostato, attraversa un contesto diverso e cambia significato. Il gesto, l’oggetto, il rito assumono nuove funzioni. Questo è il suo metodo: metabolizzare, restituire il senso traslato e mostrare l’alterità di ciò che crediamo familiare. La fiducia nell’alieno diventa così principio guida, politica dell’alterità in un mondo attraversato da migrazioni, crisi ambientali e tensioni sociali. Lo dimostra già la fotografia del 1968 scattata dal padre ad Addis Abeba: Tiravanija e la sorella vengono ritratti a sette anni; lui indossa orecchie posticce da Spock, l’alieno della serie Star Trek

È un gesto infantile, ironico, ma anche un primo tentativo di confrontarsi con l’altro, con ciò che è «estraneo». L’artista stesso lo definisce la sua prima scultura. È un chiaro riferimento all’alieno, al diverso, alla possibilità di negoziare la propria identità attraverso il gioco e la trasformazione degli oggetti. L’esperienza di sfollamento di Tiravanija – nato in Argentina da genitori thailandesi e cresciuto tra Etiopia, Thailandia e Canada – si riflette in questo gesto: vedere se stessi nell’outsider, riconoscersi nel diverso, trasformare il senso di estraneità in possibilità creativa. E nelle sue opere il rimando a Duchamp è evidente: come l’artista americano destabilizzava l’oggetto autonomo con i ready-made, Tiravanija destabilizza la percezione della figura umana e dei confini culturali. La fonte primaria sono i giornali. L'artista li legge ogni giorno, li smonta, li riporta nelle opere e li stratifica con foglia d’argento, citando il gesto thailandese di applicare foglia d’oro sulle statue del Buddha come offerta votiva. Le Silver Paintings del 2025 ricoprono prime pagine del New York Times con foglia d’argento, un gesto che oscura e insieme valorizza. L’osservatore deve ricostruire il senso, leggere tra le pieghe: ogni titolo, ogni data diventa nodo temporale, punto di connessione tra storia collettiva ed esperienza personale. Le opere su carta di grandi dimensioni, create con lacca giapponese e foglia d’argento su giornali, trasformano la lettura quotidiana in meditazione sui disordini politici, creando un «rumore visivo» che rispecchia l’era della post-verità.

Rirkrit Tiravanija, «Untitled», 2025. Credits Jiayung Deng. Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi.

Su questa linea concettuale si inserisce l’installazione «The Savage Detectives», che combina due figure preistoriche – Tiravanija e Udomsak Krisanamis – e un pettine d’acciaio che richiama il ready-made di Duchamp. Le figure, ricoperte di peli, si fronteggiano, e il pettine diventa catalizzatore concettuale, esplorando i confini tra umano e animale, tra azione e intenzione, e mostrando come un oggetto culturale possa essere traslato in contesti diversi. Non c’è ironia che punge: c’è torsione concettuale. Il pettine torna a essere ciò che non era, proprio come l’alieno nella foto: agente di dislocamento, catalizzatore che obbliga a rivedere categorie fisse, dall’umano al non umano, dall’oggetto d’arte al gesto quotidiano. I corpi in cera, capelli sintetici, bambù e scarpe da ginnastica rafforzano questo discorso. L’installazione evoca sia esposizione etnografica sia fantascienza, creando incontri intimi e inquietanti. L’arte di Tiravanija destabilizza binari convenzionali – Natura/Cultura, Umano/Non umano, Civilizzato/Selvaggio – e propone un modello di interdipendenza e riconoscimento reciproco. 

La sala con i tavoli da Go funziona come estensione di questo principio. Due tavoli, due set di pietre, una partita unica distribuita su due spazi. Le pedine bianche e nere si influenzano reciprocamente, come in un sistema di interdipendenze. L’installazione è metafora della convivenza, della strategia sociale e della negoziazione tra realtà diverse. La pratica relazionale di Tiravanija si manifesta qui in pieno: arte come esperienza condivisa, azione collettiva, interazione tra partecipanti e oggetti. Una partita, due tavoli, un unico gioco: il senso emerge solo dal movimento reciproco delle pedine, come dall’incontro con l’altro nelle sue installazioni. La cornice di Danh Vo aggiunge un ulteriore livello. Calligrafia paterna, legno dei McNamara, memoria della guerra del Vietnam, politica americana e concetto stesso di fiducia: tutto confluisce in un supporto materiale che lega storia personale e storia collettiva. Su questo fondo Vo incide «IN ALIENS WE TRUST». Non è satira, non è rovesciamento. È un gesto che raccoglie la pratica di Tiravanija: spostamento, traduzione, alterità. La fiducia non è più nella divinità o nel potere, ma in ciò che sfugge, nell’estraneo che obbliga a ridefinire confini e relazioni. Mentre intelligenza artificiale, crisi climatica e nazionalismi ridefiniscono il nostro mondo, Tiravanija offre una visione alternativa: l’alieno, che sia extraterrestre, immigrato o semplicemente diverso, non è una minaccia, ma interlocutore necessario. La sua arte crea condizioni di incontro, riflessione e lenta comprensione. Giornali, lacca, cera e bambù portano con sé storie che risuonano attraverso culture ed epoche, invitando lo spettatore a navigare reti di significati in base alle proprie esperienze. Forse, suggerisce Tiravanija, la fiducia si sposta lì. Fuori da noi. Nell’altro. In ciò che cambia forma appena lo osserviamo…

Installation view «Rirkrit Tiravanija. In Alien We Trust». Credits Jiayung Deng. Courtesy Galerie Chantal Crousel, Parigi.

Nicoletta Biglietti, 18 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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