Flavia Foradini
Leggi i suoi articoli«Potere e tradizione» è uno dei temi centrali di Bad Ischl-Salzkammergut Capitale Europea della Cultura 2024, declinato in numerose iniziative di rilievo, fra cui la questione della politica culturale del nazismo, che ebbe ricadute determinanti proprio nella regione, dove dal 1943 venne ammassata da tutta Europa una mole eccezionale di opere d’arte razziate, per metterle al riparo dai bombardamenti in ambienti dalle condizioni climatiche perfette per la conservazione di manufatti artistici: le antiche miniere di salgemma che hanno fatto nei secoli la ricchezza di quell’area geografica, situata nel più montuoso cuore austriaco.
Nel fitto programma è soprattutto il museo Lentos di Linz a incaricarsi del tema, e le tre mostre curate per l’occasione («Il viaggio dei dipinti», fino all’8 settembre al Lentos Museum, «Wolfgang Gurlitt. Mercante d’arte e profittatore a Bad Aussee», fino al 3 novembre al Kammerhofmuseum di Bad Aussee e «La vita delle cose. Rubate, asportate, salvate», fino al primo settembre alla Marktrichterhaus di Lauffen) danno un valido contributo anche alla ricerca, documentando efficacemente, fra l’altro, le peripezie di trasporti di merci preziose in condizioni estreme verso la miniera di salgemma del villaggio alpino di Altaussee, come il prezioso Altare di Gand, razziato in Belgio nel maggio del 1940, tenuto al sicuro a Pau, nell’estremo sudovest della Francia fino al 1942, quindi trasferito al castello bavarese di Neuschwanstein, e da lì trasportato al deposito di Altaussee per essere destinato alla Pinacoteca di Berlino. Un destino altrettanto sventurato venne condiviso da migliaia di opere da ogni angolo dell’Europa occupata, come la scultura marmorea della Madonna di Bruges di Michelangelo, «Giove e Antiope» di Antoon van Dyck o un trecentesco dittico in avorio raffigurante la crocefissione di Cristo.
Solo per disobbedienza al Führer quei tesori non vennero fatti saltare nel crepuscolo degli ultimi giorni della guerra, così come aveva ordinato il Gauleiter (capo sezione del Partito nazista, Ndr) August Eichgruber: le bombe fatte trasportare dentro le gallerie in otto casse chiuse con la scritta «Attenzione, marmo» vennero asportate all’inizio di maggio del 1945.
Le cronache parlano di 6.500 opere salvate dalla distruzione e trovate con grande stupore dagli Art Protection Officers dell’esercito americano, ma Birgit Schwarz, esperta di politiche culturali del nazismo e cocuratrice della mostra «Il viaggio dei dipinti», attesta una reale impossibilità a quantificare con precisione: «Possiamo dire con certezza che quel numero è troppo basso: 6.500 sono quelle che vennero contate. Ad Altaussee per esempio le opere dell’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, cioè le opere razziate agli ebrei in Francia, non vennero mai contate: restarono in casse chiuse anche dentro la miniera. Una stima realistica potrebbe essere di 20mila pezzi».
Le ricerche di Schwarz hanno appurato che non tutte le opere stipate nella miniera erano destinate al Führermuseum: «L’idea di Hitler era di avviare dopo la guerra un programma di distribuzione di opere ai musei tedeschi e austriaci. Del resto basta guardare i progetti architettonici: il Führermuseum non era affatto gigantesco, non sarebbe diventato il museo più grande al mondo. Hitler era appunto intenzionato a distribuire quel patrimonio di capolavori tenuto dentro le montagne del Salzkammergut».
Dopo la guerra fu però il caos. Al Collecting Point di Monaco, dove le opere salvate confluirono, la restituzione fu accidentata da innumerevoli errori, che Schwarz tuttavia giustifica: «Sarebbe stato impossibile evitarli».
«Non bisogna dimenticare che ad Altausse erano giunti centinaia di convogli da tutta Europa, ci spiega Elisabeth Novak-Thaller, cocuratrice delle mostre del Lentos e vicedirettrice del museo: un’impresa gigantesca, in un momento peraltro in cui treni, camion, benzina, legno e ferro diventavano via via merce rara. Il tutto fu possibile solo perché dietro c’era un ordine preciso dello stesso Hitler. In loco erano inoltre necessari anche geologi, restauratori, storici dell’arte, chimici e naturalmente esperti della struttura delle miniere. Dopo la guerra si invertì la direzione di quei trasporti, ma non sempre c’era la necessaria documentazione sulla provenienza, per consentire una rapida restituzione».
Oltre alla miniera di Altaussee, anche quella alle porte di Bad Ischl, nella frazione di Lauffen, venne utilizzata a partire dal dicembre 1944 per depositarvi 730 casse di capolavori, dopo che decine di magazzini in castelli e conventi avevano via via smesso di essere sicuri. In quel caso si trattava di opere legittimamente provenienti dalle collezioni dei grandi musei di Vienna: «Interessante è che i direttori e curatori dei musei dovettero decidere quali opere fossero da mettere assolutamente in salvo, contrassegnandole con la lettera A. Ma nelle nostre ricerche abbiamo appurato che anche dipinti di artisti considerati «degenerati» dai nazisti vennero assegnati al gruppo A, e così salvati». Nel dopoguerra quasi tutto venne ritrasferito ai musei viennesi: contrariamente al Collecting Point di Monaco, erano disponibili registri precisi e la provenienza era univoca: «Solo sette opere del Kunsthistorisches Museum, di piccolo formato, scomparvero e si deve supporre che siano state rubate», ci dice ancora Novak-Thaller.
Mentre la miniera di Lauffen è chiusa al pubblico, quella di Altaussee, pur essendo tuttora attiva per l’estrazione del salgemma, offre visite guidate dentro le viscere della terra, anche nella zona in cui vennero conservate le opere d’arte, dove è stata allestita una mostra. Nell’atrio della miniera una mostra ulteriore, la quinta dunque sul tema nell’ambito delle iniziative dell’anno come Capitale Europea della Cultura, propone con immediatezza grandi tavole disegnate da Simon Schwartz come in un un graphic novel (e raccolte anche nel volume Verborgen im Fels. Der Berg, das Salz, die Kunst) che ricostruiscono le fasi salienti dell’intera vicenda, già narrata in modo fantasioso quanto maldestro nel 2014 nel film «Monuments Men» di George Clooney.
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