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Mezzo secolo di ricerche e di provocazioni dello sperimentatore berlinese Hajek-Halke
Ombroso e solitario, individualista all’eccesso e anarchico, accanito e tenace sperimentatore fino ai limiti della provocazione, Heinz Hajek-Halke (Berlino 1898-1983, pittore di formazione ma poi fotografo per l’intera vita) non era certo destinato a una facile fama. Infatti la sua prima grande retrospettiva, al Centre Pompidou, è del 2002, e solo nel 2012 l’Akademie der Künste di Berlino, a cui l’amico fotografo Michael Ruetz ha donato l’intera sua opera (da lui ricevuta in eredità), gli ha dedicato una vasta antologica.
Eppure Hajek-Halke è stato un vero pioniere della fotografia del XX secolo, da fotoreporter prima (per l’agenzia Press-Photo, mentre già sperimentava fotomontaggi e collage) poi, durante la seconda guerra mondiale, in Svizzera, da fotografo scientifico nell’ambito della biologia degli insetti. Infine, nel dopoguerra, ecco il fotografo d’avanguardia, con il gruppo radicale «Fotoform», e il docente di fotografia e grafica all’Accademia di Belle Arti di Berlino, sebbene sin dagli anni Cinquanta avesse abbandonato la macchina fotografica per lavorare solo in camera oscura. Lì avrebbe dato vita a universi astratti che Franz Roh (il teorico della Nuova Oggettività) definirà «Lichtgrafik»: grafica di luce.
Dal 7 febbraio al 3 aprile la Galleria Carla Sozzani lo presenta, per la prima volta in Italia, in una mostra realizzata con l’Archiv der Akademie der Künste di Berlino e con Eric Franck Fine Art di Londra, nella quale sono riunite molte sue fotografie vintage, stampate tra gli anni Trenta e Settanta, frutto di manipolazioni delle forme e della luce, di «incidenti guidati» in camera oscura, di reazioni chimiche su materie diverse, al limitare tra scienza e alchimia.
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