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Il 27 marzo scorso la Pinacoteca Ambrosiana ha aperto al pubblico la nuova sala dedicata al Cartone di Raffaello, preparatorio per l’affresco della «Scuola d’Atene» nelle Stanze Vaticane, nell’allestimento di Stefano Boeri e dopo un complesso restauro, durato quattro anni. Se gli sguardi di tutti erano, comprensibilmente, rivolti a quel superbo disegno, interamente di mano di Raffaello e ora perfettamente leggibile, non va dimenticato che questa impresa non si sarebbe potuta realizzare senza l’apporto, imprescindibile, di chi ha costruito l’immensa teca che lo contiene e lo protegge da ogni pericolo. A realizzarla è stata la Goppion (che ha sede a Trezzano sul Naviglio, appena fuori Milano), leader mondiale nella progettazione e produzione di vetrine espositive per le opere d’arte, capaci di garantire loro le migliori condizioni di conservazione e di proteggerle dalle variazioni di umidità e temperatura. Ne parliamo con il ceo, Alessandro Goppion, seconda generazione (ma la terza, con suo figlio Bruno, è già attiva a Boston) e artefice del riconoscimento internazionale di una delle nostre più autentiche eccellenze.
Cavalier Goppion, quali sono state le sfide tecnologiche più impegnative che avete dovuto affrontare per realizzare la gigantesca teca del Cartone?
Noi facciamo engineering design e in questo caso, come al solito ma più che al solito, ci siamo trovati di fronte all’antinomia ricorrente di presentare l’opera nel modo ottimale e conservarla nel modo migliore. Come creare un ambiente protetto e confinato all’interno della vetrina, indipendente dallo spazio esterno, e dotarlo di caratteristiche fisiche che non pregiudichino la salvaguardia dell’oggetto? Non solo la tenuta all’aria di una costruzione è proporzionale ai metri lineari del perimetro della sua apertura (qui di 25 metri), ma c’è poi la difficoltà costituita dalla forma dell’anta a bandiera (verticale), che costringe le cerniere al suo lato breve. Soluzione questa che ci è stata imposta dalle dimensioni del disegno in relazione a quelle della sala. Questa realtà mette in conflitto numerosi elementi intrinsecamente contraddittori, da risolversi attraverso il progetto ingegneristico: la certezza di flessioni del vetro; la necessità di renderlo piano al suo perimetro; la portata limitata del pavimento rispetto al peso dell’anta; la rapidità di apertura in caso di pericolo, senza che la sicurezza rispetto al furto sia ridotta.
Come avete risolto un tale groviglio di problemi?
La rigidità/planarità del vetro è stata ottenuta con la realizzazione di un grande telaio per il suo contenimento, appositamente dotato di un sistema perimetrale di chiavarde e tenoni, per garantirne la perfetta adesione sul piano di battuta tra guarnizioni e telaio. Poi abbiamo studiato un sistema di «ragni», da disporre nella sola fase di rotazione dell’anta, che ne distribuiscono il carico a pavimento, rendendo altresì veloce e sicura la rotazione. Ma non finisce qui: si sono inoltre poste le questioni del rischio da off-gassing di materiali, della stabilizzazione del microclima e della filtrazione del particolato più minuto tramite un filtro assoluto integrato nel sistema, problemi ben valutati e risolti in collaborazione con gli esperti dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e del Politecnico di Milano. Vale la pena inoltre ricordare che il tutto è stato progettato e realizzato in un terzo del tempo mediamente necessario.
I musei stranieri oggi rappresentano il 90 per cento del vostro fatturato. Quando si è verificato il punto di svolta che da azienda di punta in Italia, vi ha resi leader mondiali del settore? Con la famosa teca per la «Gioconda» al Louvre, nel 2005?
No, accadde prima, quando i Royal Historic Palaces britannici, nel 1993, ci chiamarono per la nuova Jewel House nella Torre di Londra, dove sono conservati i gioielli della Corona. Quell'incarico ci ha lanciato in tutto il mondo anglosassone.
Perché scelsero proprio voi tra i tanti competitor internazionali?
Il responsabile del progetto, l’ingegnere Ken Percy, ci scelse per l’alto contenuto tecnico e artigianale dei nostri prodotti. Le altre società, inglesi o tedesche, proponevano progetti standardizzati, mentre nel nostro ambito il cliente ha bisogno di progetti altamente personalizzati, che rispettino l’identità culturale di ogni istituzione. Ora stiamo lavorando al Metropolitan Museum di New York, alla Smithsonian Institution di Washington, al Museo Nazionale di Oslo, a Tokyo, a Hong Kong (qui con 500 vetrine di sei diverse famiglie). E al Louvre, per la nuova vetrina della «Gioconda».
Come riuscite a mantenere competitivi i costi dei vostri prodotti, pur con una così elevata personalizzazione?
È un fatto di organizzazione. Viviamo in un territorio, il Nord Italia, che può contare su una tradizione artigiana secolare, che oggi prende forma in piccole e medie imprese altamente specializzate, agili e capaci di rinnovarsi: non meri produttori ma veri partner. Non è raro che siano loro stessi a suggerirci soluzioni ingegnose. È la storia più bella dell’Italia produttiva, fatta di forza interiore e di entusiasmo. Parliamo di capitalismo industriale, non finanziario. Quanto a noi, siamo una società di ingegneria che non solo progetta ma sperimenta le proprie costruzioni e ne realizza i montaggi, prima in fabbrica e poi nel museo, in modo da assicurarne la qualità.
Quali sono i progetti che sono, per così dire, nel suo cuore più di tutti gli altri?
Ogni progetto rappresenta una sfida stimolante ma fra quelli che più mi appassionano metterei il Museum of Fine Arts di Boston, il Cooper Hewitt Smithsonian Design Museum di New York, il Museo Afroamericano di Washington, il Bridgestone Museum di Tokyo, ora in corso, nonché il Museo dell’Opera del Duomo e il Museo Galileo di Firenze.

Una veduta dell'allestimento realizzato da Goppion per il Museo dell'Opera del Duomo di Firenze
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