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Gilda Bruno
Leggi i suoi articoliPur vivendo in una società che si sforza, almeno apparentemente, di garantire alle donne pari diritti e opportunità, il significato reale del ruolo materno resta qualcosa di sconosciuto ai più; un’esperienza difficile da raccontare veramente che si presenta, per chi non l’ha vissuta in prima persona, complicata da decifrare e comprendere.
In occasione del 14 maggio, la giornata in cui si celebra la Festa della mamma, una selezione di progetti fotografici, sviluppati da fotografe in Paesi ed epoche differenti, riportano l’attenzione sulla maternità ritraendola in maniera tanto veritiera quanto inevitabilmente rivelatoria.
Justine Kurland, «Of Woman Born»
Se c’è una fotografa capace di tradurre il tumulto al cuore dell’esperienza femminile, questa è Justine Kurland (Warsaw, New York, 1969). Conosciuta per il suo fotolibro Girl Pictures (1997-2002), documentazione avvincente delle avventure di un gruppo di giovani donne adolescenti alle prese con la transizione verso l’età adulta, nel 2006 la fotografa si imbarcò in un’altra delle sue spedizioni creative, fermandosi in 45 località differenti tra cui parchi nazionali, spiagge e aree campeggio, e immortalando le sfaccettature dell’essere madre. In compagnia del suo primogenito di un anno, Kurland trasformò il suo ennesimo «road trip» in una collezione di immagini che presenta donne di diverse età e background da lei conosciute per caso e i loro figli in un affascinante dialogo con la natura. Spogliando le proprie muse degli abiti da loro indossati nella vita di tutti i giorni, nella sua serie «Of Woman Born» (2007), l’artista americana offre una rappresentazione della maternità che guarda al primordiale per liberarsi da costrutti sociali, pregiudizi e false verità.
Dorothea Lange, «Migrant Mother»
Serie fotografiche come «Migrant Mother» (1936) di Dorothea Lange (Hoboken, 1895), ora raccolta in un volume omonimo edito dal MoMA, hanno segnato un’epoca, insinuandosi nell’immaginario collettivo. Le sei immagini che la compongono ritraggono Florence Owens Thompson, madre di sette figli allora 32enne, all’apice della Grande Depressione (1929-1939). Lange, la quale aveva assunto un incarico presso la Resettlement Administration (agenzia nata con il «New Deal» per supportare famiglie colpite dalla crisi economica) le scattò in un accampamento di raccoglitori di piselli rimasti senza lavoro. «Non le chiesi il suo nome né la sua storia, si legge negli appunti che la fotografa prese su Thompson. Mi disse che lei e i suoi figli erano sopravvissuti mangiando verdure congelate raccolte nei campi circostanti e uccelli cacciati dagli stessi bambini». Considerato «il ritratto della Depressione», «Migrant Mother» celebra la resilienza delle madri costrette a far fronte a condizioni di vita precarie, lottando con tutte sé stesse per il futuro dei propri figli.
Sally Mann, «Immediate Family»
Difficile dire se Sally Mann (Lexington, 1951) avesse predetto l’impatto che il suo libro Immediate Family (1992), volume fotografico che illustra l’infanzia dei suoi tre figli dalla sua prospettiva materna, avrebbe avuto sulla sua carriera. Eppure, pur avendo parzialmente concordato con le critiche rivoltele per avere, di fatto, messo a nudo i propri bambini, fotografandoli in maniera tanto intima quanto inevitabilmente provocatoria; nella sua autobiografia «Hold Still» (2015), l’artista confessa che lo rifarebbe di nuovo oggi stesso. Tralasciando le controversie suscitate dal libro, Immediate Family ritrae i primi anni di vita dei figli di Mann così come solo lei, in quanto madre, ha potuto osservarli. Dalle ferite riportate dai bambini in una delle tante cadute della loro infanzia, ai loro litigi, capricci e passatempi, passando per la pubertà e gli improvvisi cambiamenti associati a essa, «Immediate Family» annienta la visione ideale di ciò che significa essere madre per portare in superficie una realtà che, sebbene a tratti inquietante, ne restituisce la complessità.
Arlene Gottfried, «Mommie: Three Generations of Women»
Nel libro Mommie: Three Generations of Women (2015), Arlene Gottfried (Brooklyn, New York, 1950) invita i lettori ad addentrarsi nelle storie del suo albero genealogico, illustrando il legame indissolubile che unisce tre delle donne della sua famiglia (sua nonna materna, sua madre e sua sorella) nel corso di 35 anni. Dall’esperienza diasporica di sua nonna Minnie “Bubbie” Zimmerman, originaria di Odesa, Ucraina, alla cultura ebraica che ha dato forma alla sua educazione a New York, dove è nata e cresciuta, Gottfried immortala la fitta rete di connessioni intergenerazionali, tradizioni, usanze e ricordi che contraddistinguono la sua vita e quella delle protagoniste di «Mommie». Rivolgendo il proprio obiettivo sulla quotidianità della realtà familiare e i suoi rituali, oltre a interagire con aspetti quali nascita, amore, amicizia, malattia e lutto, la fotografa regala al pubblico una raccolta fotografica che traccia lo scorrere del tempo e ciò che esso comporta per tre generazioni di madri (e figlie).
Annie Wang, «汪曉青 Mother as a Creator»
Quando nel 2000 Annie Wang, fotografa taiwanese di Taipei City, scoprì di essere incinta, numerosi interrogativi sul suo futuro d’artista iniziarono ad affiorare, accompagnandola con l’avanzare della gravidanza. In cerca di risposte, Wang cominciò a documentare il suo percorso di madre e fotografa, dapprima focalizzandosi sul suo corpo in mutamento, e poi spostando l’attenzione sulla crescita di suo figlio. Realizzato nel corso di 21 anni, «汪曉青 Mother as a Creator» (2021) immerge gli spettatori in un vortice temporale che vede la fotografa raccontare, di anno in anno, l’evoluzione della sua esperienza materna attraverso una serie di autoritratti in bianco e nero. In essi, Wang e suo figlio posano tra giocattoli, libri, fotografie e alberi di natale di fronte a una stampa della fotografia dell’anno prima, la quale «ingloba» tutte le precedenti. Il risultato è un’affascinante collezione fotografica che, facendo leva sulla visione artistica di Wang, invita a una riflessione sulla donna in quanto «creatrice» della sua dimensione personale, creativa e familiare.
Carmen Winant, «My Birth»
Per forma e completezza, My Birth (2018) di Carmen Winant (San Francisco, 1983) è forse il volume fotografico sulla maternità più potente mai realizzato fino ad ora. Qui, l’artista visiva ci pone di fronte al dolore fisico sopportato da ciascuna madre durante il parto attraverso le immagini del travaglio di circa 2000 donne differenti. Quel che ne emerge è un qualcosa che è difficile descrivere a parole. Che sia per la nostra incapacità di concepire l’abilità del corpo umano di sviluppare al proprio interno e, successivamente, immettere nel mondo un esemplare della nostra stessa specie, o per via di una società che continua a distorcere l’esperienza femminile per far sì che corrisponda a una visione iper-sensuale e «perfetta» della donna, la nascita resta tra i rari momenti sotto-documentati nell’era del sovraffollamento visivo. In My Birth, Winant richiama così l’attenzione sull’intensità di quest’ultima per risvegliare nei propri lettori un approccio alla vita che predilige l’esperienza a qualsiasi sua rappresentazione.

Un collage di fotografie tratte da «My Birth» (2018) di Carmen Winant. Allestimento realizzato presso il Museum of Modern Art, New York, in occasione della mostra «Being: New Photography, 2018». Cortesia dell’artista e MoMA, New York

Una foto della serie «汪曉青 Mother as a Creator» (2021) di Annie Hsiao-Ching Wang. © Annie Wang. Cortesia dell’artista

Una foto della serie «Mommie: Three Generations of Women» (2015) di Arlene Gottfried.

«Candy Cigarette» (1989). Una foto della serie «Immediate Family» (1992) di Sally Mann. Cortesia dell’artista

«Migrant Mother» (1936) di Dorothea Lange. Nipomo, California. Cortesia dell’artista e MoMA, New York
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