«The Herring» di Johan Creten sulle dune di Koksijde-Oostduinkerke

© Ann Sophie Deldycke

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«The Herring» di Johan Creten sulle dune di Koksijde-Oostduinkerke

© Ann Sophie Deldycke

Anna Maria Farinato

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In Belgio il 2024 è l’anno non solo di James Ensor, celebrato nel 75mo della morte, e del centenario del Surrealismo, ma anche dell’incontro di due Triennali. Per tutta la primavera e l’estate la Triennale Beaufort24 e la Triennale di Bruges procedono in parallelo per incontrarsi sul Mare del Nord in un progetto comune.

Beaufort24: sul litorale, tra dune, vento e maree

È forse la rassegna (fisicamente) più lunga del mondo. Dal confine francese alla frontiera con l’Olanda la Triennale Beaufort24, tocca nove località sui circa 67 km della costa belga, un itinerario en plein air percorribile per intero, altro unicum, anche in tram (il Kusttram). 

Il nome della rassegna è mutuato dalla scala, perfezionata nel 1805 dall’ammiraglio britannico Francis Beaufort partendo dai dati di Alexander Darlymple, che misura empiricamente la forza del vento, basandosi sull’osservazione dei suoi effetti sul mare. E sferzate dal vento salmastro del Mare del Nord  sono le 18 opere, due per ogni località, di altrettanti artisti internazionali che la curatrice Els Wuyts ha disseminato tra De Panne, piccola stazione balneare nella provincia delle Fiandre occidentali (la Francia è dietro l’angolo) su su fino a Knokke, a un passo dall’Olanda. Questi gli artisti convocati: Selva Aparicio, Alexandra Bircken, Sara Bjarland, Johan Creten, Richard Deacon, Maëlle Dufour, Lucie Lanzini, Jorge Macchi, Jef Meyer, Ivan Morison, Lucy+Jorge Orta, Femmy Otten, Marius Ritiu, Driton Selmani, Monika Sosnowska, Filip Vervaet, Pei-Hsuan Wang e Romain Weintzem.

Nelle nove municipalità (De Panne, Koksijde-Oostduinkerke, Nieuwpoort, sulla costa occidentale; Middelkerke-Westende, Ostenda, sulla costa centrale; De Haan-Wenduine, Blankenberge, Zeebrugge e Knokke-Heist, su quella orientale) tra il lungomare, con le sue dune e le sue vaste spiagge, e l’entroterra, le installazioni interagiscono costantemente con il paesaggio, unite da un invisibile filo che, come recita il titolo di quest’ottava edizione, compone il «Tessuto della vita» («The Fabric of Life», dal 27 marzo al 3 novembre).  

«Beaufort24 è radicata nell'idea di connessioni naturali, chiarisce Els Wuyts. Il "Tessuto della vita" funge da punto di partenza, è un filo conduttore, un intreccio di linee e fibre, direzioni e modelli. Al contempo, la metafora della tessitura fornisce una chiave per comprendere determinati aspetti della nostra realtà attuale, per  rivalutare il nostro spazio pubblico immediato e comunitario e per collegarlo a numerosi mondi potenziali, previsioni e desideri. La Triennale si avventura anche un po' più nell‘entroterra, offrendo una serie di proposte visive lungo il percorso litoraneo del tram che collega senza soluzione di continuità porti, centri abitati, mercati, dighe, campi e parchi. Si muove  lungo questa fascia costiera, che è allo stesso tempo aperta alla vita vibrante dello svago e del relax, e possiede anche he la capacità di toccare  corde universali».

Le opere selezionate da Wuyts si armonizzano con i luoghi scelti dagli artisti, integrandosi in modo fluido con l’ambiente. Ripercorriamole ad una una, partendo da De Panne in direzione Knokke.

 

 

«Staging Sea» di Filip Vervaet. Foto © Ann Sophie Deldycke

De Panne. Filip Vervaet

Concepito dall'artista belga per essere collocato davanti all’ottocentesca Chiesa di San Pietro, oggi chiusa al culto e destinata ad accogliere una biblioteca, «Staging Sea», è un padiglione-fontana dalle pareti in pannelli di vetro il cui colore varia, proprio come per il mare del titolo, dal verde al blu. Nel padiglione si può entrare e sostare, contemplando il getto d’acqua delle fontana che muta seguendo l’andamento delle maree sulla costa belga. La chiesa ritroverà anche l’originale paesaggio di dune che la circondava all’epoca della costruzione, nel 1870. Parte integrante dell’opera sono anche i lampioni, che riecheggiano un dipinto di Paul Delvaux del 1958 

«Capsule» di Maëlle Dufour. Foto © Ann Sophie Deldycke

De Panne. Maëlle Dufour

Vicinissima al confine con la Francia, Maerebrug è una zona agricola in cui fino  a tempi recenti l’uso di pesticidi era la norma. Con la sua superficie specchiante la «Capsule» dell’artista richiama nella forma sia un silos (per Le Corbusier i simboli per eccellenza del progresso e delle forme architettoniche fondamentali) sia un un missile o un reattore, invitandoci a riflettere sul desiderio umano di esercitare il controllo sulla natura. L’artificialità di questo oggetto si contrappone all’immagine del paesaggio naturale che i pannelli a specchio, come in un caleidoscopio, ci rimandano. Una capsula vuota che riflette il futuro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

«The Herring» di Johan Creten e uno degli ultimi pescatori di gamberetti grigi con il suo cavallo. Foto © Ann Sophie Deldycke

Koksijde-Oostduinkerke. Johan Creten

Come una dea madre, troneggia con i suoi 5 metri di altezza sulle dune di Sint-André, lo sguardo rivolto al mare. La possente figura che l’artista ha intitolato «The Herring» (l’aringa che la donna tiene tra le mani) gioca con l’assonanza dei termini «mère» (madre) e «mer» (mare), rendendo omaggio alla figura materna e all’alimento marino che durante la seconda guerra mondiale ha sfamato la popolazione locale. L’opera rimarrà installata in permanenza in quest’angolo di costa particolarmente suggestivo, dov’è possibile vedere al lavoro, sui loro cavalli dalle selle di legno,  i pescatori di gamberetti grigi, attività secolare praticata ormai solo da un manipolo di persone e inserita dall’Unesco nella Lista del patrimonio immateriale. 

 

«All the Words in the World» di Jorge Macchi. Foto © Ann Sophie Deldyycke

Koksijde. Jorge Macchi

Basta cambiare il punto di vista e tutto può cambiare. È il messaggio muto di «All the Words in the World», la gigantesca tastiera senza tasti che l’argentino Macchi ha installato sulla diga di Koksijde. Di cemento, alta 8 metri e larga quasi 4, con i suoi tasti-occhi vuoti mostra, a seconda della posizione dello spettatore, una spiaggia o un tramonto sul mare, o, all’opposto, un’animata e brulicante strada di una frequentata località balneare. O forse quei riquadri vuoti ci parlano dell’incapacità di esprimere a parole un’immagine?

 

«At Rest» di Selva Aparicio. Foto © Ann Sophie Deldycke

Nieuwpoort. Selva Aparicio

«At Rest» è, all’apparenza, una monumentale panchina-guscio, un rifugio avvolgente che offre un gradito momento di sosta ai ciclisti, birdwatcher, pescatori ed escursionisti vari che frequentano la riserva naturale di Koolhofput. Da questo punto di osservazione lo sguardo vaga tra la vegetazione selvaggia e un corso d’acqua circondato da arbusti mossi dal vento, componendo un paesaggio rasserenante. Qui, però, durante il primo conflitto mondiale, la linea del fronte era vicinissima. E anche le «piastrelline» bronzee che ricoprono l’opera di Aparicio non sono quel che a prima vista sembrano: guardandole a distanza ravvicinata si scopre che ciascuna reca l’impronta della mano di una delle centinaia di  residenti di Nieuwport che l’artista spagnola ha coinvolto nel suo lavoro. La linea della vita dei loro palmi e la linea della morte, che sia portata dalla guerra o dall’inesorabile trascorrere del tempo, si intersecano.  

«Top down / Bottom up» di Alexandra Bircken. Foto © Ann Sophie Deldycke

Nieuwpoort. Alexandra Bircken

Il ricordo del primo conflitto mondiale torna anche nell’opera della tedesca Bircken, che ha installato la sua «Top down / Bottom up» nel memoriale del re Alberto I, un «tempietto» circolare voluto dai veterani della Grande Guerra per commemorare la battaglia dell’Yser, grazie alla quale si fermò l’avanzata dei soldati tedeschi. A riportarci all’oggi sono due figurine verdi, una giovane ginnasta che compare sia sulla sommità del memoriale, sfidando le leggi della gravità con le mani poggiate sul cornicione e le gambe in aria, e una ragazzina a terra, nel prato davanti al monumento,  che in equilibrio sulle punte tende le braccia verso l’alto, come a voler tendere una mano alla spericolata compagna o sostenere il peso del cielo. Uno sguardo dall’alto e uno dal basso, a simboleggiare anche i cambiamenti repentini della vita, gli alti e bassi appunto.  

 

«Gazing Ball: Reflective Dialogues» di Lucy+Jorge Orta. Foto © Ann Sophie Deldycke

Middelkerke-Westende. Lucy+Jorge Orta

La memoria può essere fragile, e pochi anni posso bastare ai più distratti per cancellare il ricordo di persone e luoghi. E così sono in molti a ignorare l’esistenza della stazione da cui Radio Oostende, inaugurata nel 1928, diffondeva messaggi ad uso dell’aviazione, allargandosi poi, con l’installazione di due torri di trasmissione alte oltre 60 metri (demolite di recente), al traffico marittimo. Da quell’elegante palazzina un piccolo angolo del Belgio comunicava con il mondo intero. Lucy+Jorge Orta hanno collocato la loro «Gazing Ball: Reflective Dialogues» a poca distanza, nel Normandpark, un’area oggetto di riqualificazione. Il lavoro, su cui vigila un «Genius loci» che dall’alto sembra invitare a entrare nell’opera,  consiste in un arioso padiglione di metallo, aperto su tutti i lati, in cui riposare, meditare, contemplare il paesaggio o scambiare due parole con altri frequentatori del parco. Una grande sfera riflettente sormonta la struttura: impossibile non specchiarsi e non meditare sull’immagine di noi stessi e di quanto ci circonda o ci sovrasta che la sfera ci restituisce. I «dialoghi riflettenti» che s’instaurano interagendo con l’opera, rimandano ai dialoghi senza fili della stazione radio scomparsa, invisibili ma non per questo inesistenti, tendendo un filo tra persone di ieri e di oggi, tra passato e presente, tra cielo e terra. Molto frequentata sin dalla sua collocazione, «Gazing Ball» rimarrà qui in permanenza. 

«Untitled» di Jef Meyer. Foto © Ann Sophie Deldycke

Middlekerke-Westende. Jef Meyer

Una torre di cemento piantata tra le dune, un alieno in un paesaggio fatto di sabbia, cespugli, vento e acqua. L’installazione senza titolo del giovane artista di Anversa potrebbe sembrare la garitta di un guardiano del mare. Accoglie un visitatore alla volta e se si supera il senso di claustrofobia e la paura del buio si viene ripagati dalla vista del panorama che si può godere da una fessura ritagliata in cima al blocco di cemento. Riecheggiano, anche qui, rimandi al passato e alla guerra, e in particolare ai bunker della vicina linea di difesa tedesca.  

 

«Moeder» di Femmy Otten. Foto © Ann Sophie Deldycke

Ostenda. Femmy Otten

Prima di arrivare alla scultura finita, l’artista olandese ha lavorato per nove mesi sul suo stesso corpo gravido, creandone in un primo tempo un modello in legno. Durante l’attesa Otten ha avuto modo di riflettere anche sulla scarsa rappresentazione delle donne incinte nel panorama dell’arte contemporanea e su quante poche siano negli spazi pubblici le opere di delle donne artiste e madri. La sua tondeggiante «Moeder» è collocata nel bacino d’acqua al centro del viale che conduce al Kursaal, al cui interno è custodita anche una collezione d’arte. Una statua nel più classico dei materiali della scultura, il marmo, ma antieroica e senza piedistallo. La partoriente poggia infatti su un fianco direttamente sulla superficie liquida, in una nudità per una volta non filtrata dalla sguardo maschile e che non ha nulla di erotico. Un nudo sereno e giocoso (la «moeder» con i piedi giocherella con una palla composta da parti di un corpo maschile), che ha un legame particolare con la città di Ostenda, pioniera nella pratica dei parti in acqua.  

Val la pena fare una piccola deviazione e arrivati davanti al Kursaal girare a destra e proseguire per pochi metri fino alla casa museo di James Ensor e alla spettacolare bottega di souvenir che gestiva la madre dell’artista.

«At the Mercy of Nature (Sisyphus Part X)» di Marius Ritiu. Foto © Ann Sophie Deldycke

Ostenda. Marius Ritiu

Un enorme meteorite piombato dallo spazio nel bel mezzo di un affollato parco cittadino. Uno di quegli eventi naturali sui quali non abbiamo nessun potere. O forse il residuo minerale di un paesaggio creatosi in un’epoca remotissima. Così appare il gigantesco «At the Mercy of Nature (Sisyphus Part X)», ma anche in questo caso gli occhi ci ingannano. Marius Riti ne ha collocati diversi, in varie parti del mondo (lui, romeno di nascita, si definisce nomade e migrante), di questi suoi «roccioni», che i moderni Sisifo sono condannati a spingere senza sosta, per spostare un po’ più in là i confini del mondo. Sono sculture cave, modellate laboriosamente, e con risultati di strabiliante realismo, martellando il rame. Un materiale che ha accompagnato l’uomo fin dalla preistoria e che in antico si credeva fosse l’elemento di cui erano costituiti i pianeti. E poi quale metallo, se non il rame ha, per eccellenza, la capacità di trasmettere e di connettere, di collegare e unire? All’ombra della masso di Ostenda, il giorno in cui l’abbiamo visitato, gruppi di musulmani celebravano festanti la fine del Ramadan.

 

«Monobloc Moments» di Sara Bjarland. Foto © Anne Sophie Deldycke

De Haan-Wendoune. Sara Bjarland

Rotatorie e sedie di plastica (quelle da bar o da festa di paese, onnipresenti) stanno conquistando il mondo. E per queste ultime, ma in generale per la «plastificazione» del pianeta, il prezzo da pagare in termini di sostenibilità è altissimo. La sedia monoblocco ha invaso anche il locali sulla costa belga, e la finlandese-olandese Bjarland non è rimasta a guardare. Abituata a ripescare da discariche e bidoni della spazzatura oggetti di scarto per dar loro nuova vita, ha rastrellato quanti più esemplari possibili di questo simbolo della cultura dell’usa e getta (e della globalizzazione) creando «Monobloc Moments»: una «danza» delle famigerate sedute, impilate caoticamente, come se fossero state ammassate da violente raffiche di vento della costa, colate in un nobilitante bronzo e assemblate in una sorta di monumento contro il consumismo. La «torre di monoblocchi» così ottenuta svetta al centro, ovviamente, di una rotatoria:  duplice monito a prestare maggiore attenzione a quanto costruiamo, produciamo e, con leggerezza, buttiamo via.

 

«Al Met Der Tyd» di Pei-Hsuan Wang. Foto © Ann Sophie Deldycke

De Haan. Pei-Hsuan Wang

Nata a Taiwan e residente in Belgio, Pei-Hsuan Wang ha attinto alla cultura del suo Paese natale per modellare due creature mitiche, vigili e benefiche guardiane che collocate davanti agli ingressi delle case e dei santuari cinesi tengono alla larga disgrazie e malanni. Trasposte sul litorale belga, il loro compito diventa quello di proteggere i corsi d’acqua e le comunità del litorale. Il borgo costiero di De Haan ha assistito alla fine dell’Ottocento a una fioritura di ville in stile anglo-normanno e nei primi anni Venti del ’900 è qui che è nato uno dei primi centri di villeggiatura sociale e di colonia per bambini. Enigmatici e imperturbabili, i due guardiani di bronzo scrutano all’infinito il paesaggio di dune e mare che si stende davanti ai loro occhi e ci lanciano un tacito invito a condividerne la contemplazione prendendo posto sulla panchina accanto a loro. «Al Met der Tyd» (Ogni cosa a suo tempo), la frase che dà il titolo all’installazione, è tratta da un’iscrizione su una facciata di una villa del 1890, mentre la volpe che uno dei due guardiani tiene in braccio rimanda a una leggenda locale, incentrata su Mong de Vos, un vagabondo in cerca di tesori sulla spiaggia. 

 

«Attentifs Ensemble» di Romain Weintzem. Foto © Ann Sophie Deldycke

Blankenberge. Romain Weintzem

Centro di villeggiatura fiorito nella Belle Epoque, a cavallo tra Otto e Novecento, Blankenberge conserva ancora oggi diversi esempi di architettura di quel periodo di ricchezza e spensieratezza, dal Casinò a eleganti ville private affacciate sulla spiaggia, così come i grand hotel e il molo. Al parigino Weintzem non è sfuggito questo legame con la sua città natale e mescolando stilemi tipici dell’Art Nouveau con suggestioni contemporanee ha dato vita ad «Attentifs ensemble», una giostra in legno dalle forme sinuose e fluide, composta da otto seggiolini singoli, collocati in tondo e separati da divisori in metallo. La giocosità dell’opera si ferma qui, ed è il titolo a svelarcene il significato occulto: «(Stiamo) attenti insieme» è infatti l’avvertenza affissa, e diffusa tramite altoparlante, nei mezzi di trasporto parigini. Un segno dei tempi: la struttura della giostra rende pressoché impossibile interagire coi vicini, insinuando in compenso il timore che dall’altro possano solo arrivare minacce.

 

«Lost For Words» di Driton Selmani. Foto © Ann Sophie Deldycke

Blankenberge. Driton Selmani

All’anima festaiola e rumorosa propria di una località di vacanza molto frequentata, Blankenberge unisce un côté più silenzioso e meditativo. Basta allontanarsi dalla «caciara» della passeggiata sul mare e inoltrarsi nei sentieri tra le dune. La quiete a pochi passi dal caos è l’elemento della città che di primo acchito più ha colpito il kosovaro Selmani, abituato lui stesso alla rumorosità, al disordine politico e alle diverse lingue del suo Paese natale, in cerca di riconoscimento internazionale. Nel silenzio delle dune l’artista ha piantato i suoi tre pali segnaletici, ognuno sormontato da una parola del titolo («Lost for Words») come un «vessillo di empatia». Anche in un’epoca turbolenta come la nostra, infatti, non bisogna perdere di vista la poesia. L’uso dell’inglese, quando non è la propria lingua madre, ci dice poi Selmani, è un modo per connettersi agli altri. 

 

 

«Façade» di Monika Sosnowska. Foto © Ann Sophie Deldycke

Zeebrugge. Monika Sosnowska

Collocato nel Parco di Saint-Donaas, frequentato dai locali ma anche da molti camionisti lituani, romeni e polacchi, «Façade» sintetizza il cambiamento urbanistico cui l’artista, nata in Polonia nel 1972,  ha assistito nel suo Paese con il crollo del regime comunista. Ridotti in polvere molti edifici modernisti, si è fatta strada una nuova epoca dell’architettura, l’era del capitalismo. Nella monumentale installazione di Sosnowska, un cumulo di telai di finestre contorte rimanda alla facciata in vetro di un tipico edificio modernista di Varsavia, quello della Fondazione Galleria Foksal. Gli elementi architettonici esistenti così distorti giocano con la percezione e lo sguardo degli spettatori. 

«Star of the Sea» di Ivan Morison. Foto BruggePlus © Femke den Hollanden

Zeebrugge. Ivan Morison

Coprodotta con la Triennale di Bruges, «Star of the Sea» è una costruzione in cemento che bisogna sperimentare. Impossibile non vederla anche da lontano: con le sue ciminiere, strutture tubolari e pozzi di ispezione spunta dalla sabbia come un sito archeologico riemerso dalle profondità marine, o come un bunker, un castello, o un sottomarino. La sua struttura a forma di stella invita all’esplorazione: entrando si osservano variazioni di luce, suoni, odori, vedute inconsuete della spiaggia (quando l’abbiamo visitato noi la marea obbligava a compiere slalom tra le pozze d’acqua). Non è però l’unica «stella del mare» del luogo. Nelle vicinanze sorge infatti la Cappella Stella Maris, dedicata a Maria, protettrice sin dal Medioevo dei marinai e dei viaggiatori, da poco acquisita dalla Comunità ortodossa rumena di Zeebrugge.  Il monumento, un faro di speranza e accoglienza, ha ispirato, non solo nel nome, il lavoro di Morison.  

 

 

 

«N/E/W/S» di Richard Deacon. Foto © Ann Sophie Deldycke

Knokke-Heist. Richard Deacon

Collocata nel nuovo parco che dal 2023 è uno snodo tra la nuova stazione ferroviaria, il centro città e  la spiaggia,  «N/E/W/S» in origine si sarebbe dovuta chiamare «Everybody is Talking»: le «nuvolette» sovrapposte di acciaio inossidabile che la compongono ricordano infatti le «bubbles» dei fumetti e il chiacchiericcio dei frequentatori del parco, luogo di incontro e di scambio. Poi l’ubicazione della scultura, che ha quattro lati e poggia su un piedistallo quadrato, ha fatto pensare ai quattro punti cardinali, North, East, West, South in inglese, le cui iniziali, lette tutte insieme, compongono anche la parole «News», notizia, suggerendo possibili connessioni tra lo scambio di notizie e l’azione di orientarsi nello spazio. Ma a ben guardare le nuvolette dell’artista inglese, elementi mutevoli quanto mai, potrebbero essere un omaggio alla scala Beaufort che misura i venti e alla quale la Triennale deve il proprio nome. O alla natura ancor più mutevole delle notizie.

 

«Trouble Sea» di Lucie Lanzini. Foto © Ann Sophie Deldycke

Knokke-Heist. Lucie Lanzini

Come una cartolina di vetro o una finestra tra gli alberi di Willems Park, «Trouble Sea» dell’artista franco-belga Lucie Lanzini si staglia nel verde, non lontano dalle dune, offrendo una visione inconsueta del paesaggio naturale e un’apertura verso il mare. I vetri specchianti, che non arrivano a ricoprire interamente il telaio e consentono quindi di attraversare l’opera, rimandano ai colori della costa. A rafforzare ulteriormente il legame con l’ambiente marino sono le corde da pesca, modellate in bronzo. Un materiale che sottrae loro la flessibilità richiesta per l’uso in mare, ma che icasticamente sottolinea la solidità dei legami che intrecciamo.  

 

«Earthsea Pavillion» di Studio Ossidiana. Foto © Filip Dujardin

Bruges: le possibilità dell’arte contemporanea nella regina di Fiandra

Se il «Tessuto della vita» della Triennale Beaufort24 usa la metafora del filo e della tessitura per mettere l'accento sulll'idea delle connessioni naturali, sulla necessità di costruire legami forti e scambi con le comunità e i luoghi, «Spazi di possibilità», così s'intitola la quarta Triennale di Bruges (dal 13 aprile all’1 settembre) è vista come l'occasione per rivitalizzare aree da tempo inutilizzate della splendida «regina di Fiandra» e per riflettere sul futuro della città patrimonio Unesco. L’idea è di lasciare i sentieri battuti e di fare un esercizio di immaginazione. Come si può pensare o combinare l’architettura e l’arte contemporanee in un luogo dove la costruzione e il patrimonio sono così importanti? Come creare nuove connessioni tra parti della città? Come possono gli architetti e e gli artisti ispirare gli abitanti con nuove idee?

Le curatrici Shendy Gardin e Sevie Tsampalla hanno selezionato una dozzina di artisti e studi di architettura internazionali, invitandoli a ripensare l'idea di città e a come questa possa essere affrontata in modo diverso, tenendo conto della sua topografia e della sua storia. Nel Medioevo Bruges è stata un importante centro commerciale europeo, dove gli ordini religiosi hanno lasciato la loro impronta; oggi  è un’affollata destinazione turistica, che accoglie quasi cinque milioni di visitatori all’anno, con tutti i vincoli, per non dire i fastidi, che questo comporta per le sue infrastrutture e i suoi residenti. 

«Spaces of Possibility» si concentra su quartieri e luoghi fuori dalle rotte consuete che sono stati trascurati o malutilizzati ispetto al loro potenziale. Il cortile delle Halles, accanto al campanile, è stato trasformato in un'agorà o in un palcoscenico temporaneo dallo studio di architettura Traumnovelle di Bruxelles, collettivo militante impegnato in dibattiti ambientali. Il campanile contemporaneo di The Tower of Balance di Bangkok Project Studio dialoga con i suoi omologhi religiosi e civili nel centro della città. È una celebrazione del vuoto la «goccia» cava di Shingo Masuda e Katsuhisa Otsubo , la struttura in mattoni che gli architetti giapponesi hanno costruito nel parco dell'Ospedale di San Giovanni,  con materiali e colori che richiamano gli edifici antichi  di Bruges. Altre creazioni si distinguono per il loro lato più poetico, come gli stivali di bronzo di Iván Argote, che sembrano incedere come per magia sulla superficie di un canale, portandoci a interrogarci sull'identità del loro proprietario (l'opera, non a caso, s’intitola «Who?»).

Connette mare e terra, storia e natura, uno dei progetti più interessanti: l’«Earthsea Pavilion» che lo Studio Ossidiana (gli italiani Alessandra Covini e Giovanni Bellotti, di base a Rotterdam) ha installato in un edificio quattrocentesco, l'Hof Bladelin. Un alto cilindro percorribile, dal suolo ricoperto di valve di conchiglie, in cui sono contenuti strati di terreni diversi, nonché piante e semi che sbocceranno in tempi diversi nel corso della Triennale, trasformandosi così in un’opera differente da quella vista all'inaugurazione: un edificio vivo. Il potere trasformativo è la chiave anche  di «Under the Carpet», i tappeti vegetali dell'artista e ingegnere-architetto belga Adrien Tirtiaux, costituiti da frammenti di una vecchia strada ricoperta di muschio e vegetazione, che, come un archeologo della modernità, ha disseppelito. Suddivisa in tre parti, l’opera ri-connette l'Ospedale di San Giovanni con la Clinica Minnevater, un tempo unite propri da quella strada di cui Titiaux ha recuperato i frammenti. 

È in qualche modo un lavoro bio-archeologico quello dell’artista messicana Mariana Castillo Deball, che in «Firesong fo the bees, a tree of clay» ha recuperato le antiche arnie, dalle forme sorprendenti, che fino a metà Ottocento, prima che prendessero piede le costruzioni in legno, era consuetudine realizzare in ceramica e decorare con elementi che rimandavano alla personalità e alle idee del loro proprietario. Combinando contesti e storici e geografici differenti, l'artista ci invita a ripensare alla sparizione silenziosa di di oggetti ritenuti obsoleti e a come un manufatto riscattato dal passato posa «re-impollinare» la città, con iconografie, tecnologie e architetture dimenticate connesse alla cura delle api.

Scavato nel giardino dell'Ospedale Psichiatrico Onzelievevrouw, lo stretto passaggio pensato da Mona Hatoum per l'opera «In full swing»  ci mette alla prova con un’esperienza che può apparire opprimente: si scende, uno alla volta, con cautela, su gradini sdrucciolevoli, circondati da reti di metallo riempite di pietre. Si sale (non c'è altra possibilitò) sull'altalena che dà il titolo all'opera e con quello slancio si affronta la risalita. Anche nei contesti più soffocanti e soggetti a un rigido controllo, una via di uscita c'è sempre.

Anna Maria Farinato, 13 maggio 2024 | © Riproduzione riservata

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