Fabio Isman
Leggi i suoi articoliAncora oggi, a 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, quanto razziato è stato rintracciato o restituito solo in minima parte. Intorno alle opere recuperate sono però state ricostruite affascinanti storie collezionistiche e, soprattutto, umane.
Sono gli ultimi prigionieri di guerra: di quella mondiale scatenata da Hitler nel 1938. Non si sa nemmeno quanti siano: ancora oggi, 75 anni dopo la fine del conflitto, non passa settimana senza che qualcuno di loro torni alla luce. Sono i dipinti e gli oggetti d’arte prelevati dai nazisti fino al 1945, magari a ebrei che non possono rivendicarli perché non ci sono più, spesso finiti nei lager. Spuntano fuori dappertutto; senza che nessuno lo sapesse, uno era addirittura al museo di Tel Aviv. Parecchi sono ormai «tornati a casa» agli eredi dei proprietari, di altri però la restituzione è negata. E ciascuna di queste opere nasconde storie umane, e di collezionismo, sovente poco note. Chissà quante non sono ancora state neppure individuate e quante lo saranno in futuro: le statistiche si contraddicono.
Secondo qualcuno allora è stato razziato un quinto dell’arte europea e sono state ritrovate appena centomila opere. Un ex sottosegretario di Stato americano dice che sarebbero almeno 600mila quelle portate via agli ebrei (e 100mila quelle tuttora sperdute): «Non soltanto per arricchire il Reich, ma anche per eliminare le tracce dell’identità ebraica». La storica Emmanuelle Polack sostiene che sono stati ritrovati solo sei decimi dei centomila oggetti sottratti in Francia, mentre secondo Ann Webber, che fa parte della Commission for Looted Art in Europe (CLAE), i nove decimi di quanto prelevato nel continente è ancora disperso. Philippe de Montebello, per 30 anni direttore del Metropolitan Museum di New York, valuta che il bottino nazista superi «i due miliardi e mezzo di dollari d’allora: ben più del valore di tutte le opere d’arte esistenti negli Stati Uniti». E tra quanto è tornato alla luce, ci sono clamorosi episodi.
Jozef Israëls, pittore di Groninga (1824-1911), studia a Parigi anche con Horace Vernet e a 46 anni si trasferisce ad Amsterdam. Dipinge i più poveri nella vita quotidiana (lo chiamavano «il Millet olandese»). Non è autore famosissimo, tuttavia suoi quadri sono al Rijksmuseum di Amsterdam e al Metropolitan di New York e recentemente qualche suo dipinto è passato all’asta per oltre 50mila euro, come «Donna che beve il caffè» del 1902, largo un metro, venduto l’anno scorso da Christie’s a New York. Di Jozef Israëls Anna, Gabriele, Davide e Daniele Bedarida di Livorno nel 2008 hanno donato all’Israel Museum di Gerusalemme «Pescatrici a Zandvoort» del 1890, alta quasi un metro e 80 centimetri, definita tra le «sue opere più forti».
Rientra nel filone intimista che esprime il senso tragico della vita anche «Dal buio alla luce» del 1871 (30x46 cm). Apparteneva a Rudolf Mosse, editore e filantropo (1843-1920), fra i tre più ricchi di Berlino. Dopo la sua morte, i nazisti vietano la pubblicazione del «Berliner Tageblatt», il suo quotidiano democratico nato nel 1872, e arianizzano la sua società. La sua collezione, prelevata al genero Hans Lachmann sotto la minaccia di una pistola in cambio del permesso di espatriare con moglie e figli, viene dispersa nel 1934 in due aste «a beneficio dei veterani della prima guerra». Nel 1936, il suo palazzo diventa sede di un «istituto di studi» diretto da Hans Frank, che sarà il governatore nazista della Polonia (si approprierà anche della «Dama con l’ermellino» di Leonardo «e di centinaia d’altre cose») e verrà giustiziato nel 1946 dopo il processo di Norimberga.
Oggi, un’istituzione intitolata a Mosse s’industria per ritrovare il maltolto con rilevanti risultati. Il figlio di Lachmann, docente all’Università del Wisconsin, ha recuperato in quella che era la Germania dell’Est numerose proprietà, tra cui il palazzo di famiglia e, per dirne una, anche «Susanna», una scultura di Reinhold Begas del 1869. Di marmo, alta un metro e 20 centimetri, era esposta alla Alte Nationalgalerie della capitale tedesca. Quando l’Armata Rossa occupa Berlino, la statua finisce a Leningrado come «preda di guerra» e da qui, nel 1978, al Museo etnografico di Lipsia. Torna al museo di Berlino nel 1994 e vi resta vent’anni finché la provenienza è identificata. È ancora lì: i discendenti dell’editore l’hanno venduta. Ma il Mosse art restitution project ha ritrovato a Tel Aviv «Dal buio alla luce» che, riemerso nel 1993 quando il mercante locale Meir Stern sopravvissuto ad Auschwitz lo acquista sul mercato senza saperne nulla e poi lo vende a un altro israeliano il quale, infine, lo dona al museo. La direttrice Tania Coen-Uzzielli racconta che, trovati gli eredi, sono in trattativa; il dipinto era già esposto, «con tutte le spiegazioni sulla sua storia» e il museo è «intenzionato ad acquisirlo».
Nella ricerca di quanto è stato sottratto dai tedeschi di Hitler è impegnato perfino l’Fbi. L’anno scorso ha infatti recuperato un’altra opera già di Mosse che si trovava all’Arkell Museum di Canajoharie, paese di duemila abitanti dello Stato di New York: «Inverno», o anche «Pattinatori sul ghiaccio», dipinto tra il 1880 e il 1890 da Gari Melchers, un impressionista americano della Virginia. Il dipinto è arrivato negli States ancor prima della guerra. I nazisti lo mettono all’asta nel 1934. Il fondatore del museo americano, Bartlett Arkell, lo rileva da una galleria di New York e all’Arkell Museum di Canajoharie rimane esposto per 85 anni finché se ne accorge l’Fbi. Venuto a conoscenza della vicenda, il museo rinuncia a ogni contenzioso.
Lacerti dispersi di collezioni cancellate, che solo qualche volta tornano al loro posto. In Germania, come dichiarato dal Ministero delle Finanze, sono ancora custoditi, nei musei statali, nei dicasteri o nel deposito federale delle opere d’arte di Weissensee a Berlino, almeno 2.500 oggetti di provenienza oscura: quasi certamente trafugati agli ebrei di tutt’Europa. Per la legge tedesca dopo 35 anni la restituzione non è obbligatoria, ma anche recentemente esponenti di Governo si sono impegnati a onorare quello che è un obbligo morale. Tuttavia negli ultimi vent’anni sono stati restituiti appena 54 dipinti e sculture.
Tra le ultime restituzioni c’è il «Ritratto di una giovane seduta» di Thomas Couture (1815-79). Lo possedeva Georges Mandel, il cui vero nome era Louis Rothschild, nel 1917 capo di gabinetto di Georges Clemenceau; poi, dal 1936 al 1940, due volte ministro. Oppositore di Pétain, viene arrestato il giorno in cui passa le consegne al successore. Scarcerato, va in Marocco, dove è però ripreso; condannato a vita, nel 1942 è deportato dalla Gestapo. Due anni dopo, rimpatriato, è ucciso da un finto autista all’ordine dei nazisti. A Parigi, ne reca il nome una tra le grandi avenue che irradiano dal Trocadéro.
Confiscata nel 1940, la «Giovane seduta» ora tornata agli eredi era uno dei dipinti del mercante nazista Hildebrand Gurlitt ed è stata rintracciata tra i 1.500 tenuti nascosti dal figlio Cornelius.
Erano invece in due diverse collezioni di ebrei le sette opere che il Saarland Museum di Saarbrücken (Germania) ha restituito quest’anno. Le ha dipinte Max Slevogt (1868-1932), impressionista noto per i paesaggi e, con Max Liebermann, tra i protagonisti dell’arte en plein air. Parecchi suoi quadri sono al Landesmuseum di Hannover. Fu anche lo scenografo di un famoso «Don Giovanni» andato in scena a Dresda nel 1924 con, come protagonista, il baritono Francisco D’Andrade più volte da lui ritratto: un dipinto del 1903 è a Berlino, alla Alte Nationalgalerie. Un altro ritratto di D’Andrade nelle vesti di don Giovanni è tra i sette oggetti restituiti quest’anno dal Saarland Museum. Vi erano giunti nel 1982, con la collezione del banchiere Franz Josef Kohl (morto nel 1972) donata al museo per pagare i debiti con il fisco.
Sei delle opere restituite dal museo di Saarbrücken provenivano dalla raccolta di Julius Freund, ebreo tedesco perseguitato dal 1933 e sei anni dopo costretto a emigrare. Freund va a Londra povero in canna, dissanguato dalla tassa di proprietà imposta agli ebrei, e lì muore durante un bombardamento. Dal ’33 la collezione era al sicuro in Svizzera, ma la moglie Clara, sopravvissuta al bombardamento, ne vende una buona parte in asta a Lucerna per sopravvivere. Il 21 marzo 1942 qualche pezzo della collezione viene acquistato per quello che doveva diventare il museo di Hitler a Linz. Il Führer era tanto innamorato del progetto che a Berlino, nel bunker della Cancelleria dove consumava i giorni estremi, ne teneva un plastico che spesso rimirava. Il museo, per il quale aveva già acquisito 13mila opere, doveva essere costruito entro il 1950 vicino a Braunau dove Hitler era nato. Museo e non solo: l’Hitlerzentrum, con facciata a colonne di 150 metri, prevedeva una biblioteca di 250mila volumi, un auditorium dove eseguire, si suppone, particolarmente Wagner e un enorme mausoleo per la tomba di chi l’aveva voluto.
Tra le opere di Slevogt restituite dal museo di Saarbrücken c’è «Ananas», del 1902, che sembra quasi una foto del frutto esotico. Il dipinto era di Alice e Fritz Hermann di Berlino-Dahlem; lui era un editore contrario al regime e perseguitato. Nel 1936 vendono tutto in un’asta per espatriare con i due figli. Il museo ha stipulato un accordo con gli eredi degli Hermann che vivono negli Stati Uniti secondo il quale «Ananas» resterà esposto fino al 2023. Un «giusto accordo» è stato trovato anche con gli eredi Freund, da cui il museo ha riacquistato le sei opere, compreso il ritratto dell’allora celebre baritono.
Tre quarti di secolo dopo la fine della seconda guerra mondiale non riemergono soltanto opere di autori tutto sommato periferici, ma anche di artisti assai famosi. In aprile la National Gallery di Washington, l’unico museo pubblico degli Stati Uniti, si è infatti dovuta privare di un piccolo pastello di Pablo Picasso del 1903, «Volto di donna su fondo blu» di 30 cm per lato, che appartiene al suo periodo omonimo. Ora è degli eredi del banchiere berlinese Paul Robert Ernst von Mendelssohn-Bartholdy (1875-1935), che lo deteneva dal 1912. Poco prima di morire Mendelssohn, ebreo e parente del famoso musicista Felix e del filosofo Moses, estromesso dal suo istituto di credito (tra i cinque più rilevanti tedeschi), aveva infatti venduto molte opere al mercante Justin Thannhauser, figlio di Heinrich, con galleria a Monaco già nel 1908. Scampato alla Shoah, Justin, senza figli, nel 1963 cede 75 dipinti, di cui 30 Picasso, alla Solomon Guggenheim Foundation di New York che li espone nella sede ideata nel 1943 da Frank Lloyd Wright. Una mostra della collezione Thannhauser si è svolta di recente a Milano.
A proposito di capolavori torniamo a Mendelssohn che nel 1934, perseguitato dai nazisti e con un reddito ridotto al 14 per cento rispetto a due anni prima, vende. Nel 2001 la National Gallery di Washington ha deciso di restituire «Volto di donna», esposto solo due volte ed entrato nel museo in quello stesso anno per dono di Ian Woodner, ancor prima che si aprisse un contenzioso per evitare le ingenti spese che avrebbe comportato. Una dozzina d’anni fa infatti due musei americani, il MoMA e il Guggenheim di New York, si erano a lungo opposti alla restituzione di due dipinti reclamati da coloro che oggi rappresentano il banchiere Mendelssohn i quali hanno richiesto ai grandi musei dipinti per oltre 200 milioni di dollari. Alla vigilia del processo, dopo lunghe trattative, è stato trovato un accordo e le opere sono rimaste nei due musei, ma non si sa in cambio di quali contropartite. «Volto di donna» è invece già in mano al maggior mercante di oggi, Larry Gagosian, che lo offre per dieci milioni di dollari.
Tra quanto è tornato negli ultimi tempi agli eredi dei proprietari scomparsi ci sono anche due antichi ritratti egizi, simili ai tanti del Fayyum, finiti all’Università di Zurigo: erano anch’essi di Mosse. E c’è una «Natura morta con bouquet» di Narcisse Virgilio Díaz de la Peña, francese della Scuola di Barbizon, trovata al Wallraf-Richartz Museum di Colonia che detiene un ben triste primato. Mosse l’aveva donata alla figlia Felicia (ironia dei nomi), costretta a cederla nel 1934 nella già citata asta forzosa. L’acquista Walter Westfeld, un mercante che muore ad Auschwitz nel 1939. Come le altre opere appartenute a Westfeld il quadro viene sequestrato e, razziato due volte, torna in asta a Colonia dove è stato rinvenuto nel museo 78 anni dopo.
Dei 400 oggetti dispersi di Max Stern, appena 18 sono stati recuperati; chi detiene gli altri resiste a restituirli. Stern era un famoso gallerista, figlio di un imprenditore e collezionista che dopo la prima guerra aveva un negozio d’arte a Düsseldorf; nel 1935 Max ne apre uno anche a Londra. Nel 1937 i nazisti gli concedono 17 giorni per chiudere gli affari: se ne va con una valigia in mano. Sopravvive e fa carriera in Canada dove muore nel 1987 a 83 anni. Stern non ha mai smesso di cercare quanto gli era stato portato via e ora alla ricerca provvede un trust.
Alcuni quadri sarebbero nella stessa Düsseldorf; però il museo pare assai poco incline a privarsene. Frank Chalk, docente in un ateneo canadese, sottolinea: «Ancor oggi, l’élite tedesca non vuole restituire le opere d’arte già degli ebrei». Di Vassilj Kandinskij, per dirne un’altra, non è tornato «Panorama di Murnau con chiesa», del 1910: è in Olanda al Van Abbemuseum nonostante lo reclamino i 12 eredi di Johanna Margarete Stern-Lippmann, uccisa ad Auschwitz. Il 13 febbraio di quest’anno è morta a San Diego a 99 anni Beverly Cassirer che con il marito Claude morto nel 2010 ha tentato invano di tornare in possesso di numerose opere per un valore di 30 milioni di dollari sottratte loro dai nazisti tra le quali «Rue Saint-Honoré nel pomeriggio, sotto la pioggia» di Camille Pissarro (pure ebreo), che, dopo vari processi, è rimasta al Museo Thyssen di Madrid. Invece del dipinto dalla Germania avevano ricevuto 13mila dollari in riparazione che hanno reputato un’estrema ingiustizia. Su quanto è ancora da ritrovare si potrebbe davvero scrivere un libro.
L'ARTE BOTTINO DEI NAZISTI
1. Gli ultimi prigionieri di guerra
2. L'Italia prende e restituisce
3. Dai Klimt ai Gurlitt
4. Quanto dobbiamo ancora cercare
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