«Se fossi un killer non tornerei mai sul luogo del delitto». Ma Corrado Bonomi (Novara, 1956) non è il tipo che potrebbe commettere un omicidio perfetto. Le sue opere sono un elogio all’imperfezione e il malfunzionamento rappresenta la forma più persistente per opporsi alle sofisticazioni ipertecnologiche. Lui è un hacker che boicotta anche sé stesso, sempre in prima fila tra gli indiziati.
Così, anche questa volta ha dovuto smentirsi e in una fredda giornata dell’inverno 2021 è tornato sul luogo del delitto scovando in un garage di Settimo Milanese oltre settanta opere realizzate dal 1987 al 1991 che in cuor suo sperava di non vedere più. Testimonianze che lo hanno costretto a riflettere sul suo passato: «Mi sono venute in mente tante cose, come quando ti ritrovi in mano i tuoi giochi da bambino e vecchie fotografie. Ho ripensato soprattutto al luogo in cui lavoravo allora, molto freddo d'inverno, i pennelli e i colori usati che forse ho ancora...», racconta a Barbara Cottavoz.
Era in un capannone comasco messo a disposizione dalla galleria Pantha Arte di Andrea Murnik che Bonomi ha compiuto i suoi primi «delitti». Fuor di metafora, quella produzione iniziale gli era stata commissionata da un collezionista per certi versi leggendario, Narciso Bonato che aveva fatto una vita avventurosa diventando, come ricorda Marianna Cappia, l’unico appaltatore per le estrazioni petrolifere in Venezuela e certo non aveva alcuna difficoltà a finanziare con pochi spiccioli un giovane talento che sarebbe diventato tra i protagonisti del Concettualismo ironico italiano.
Ma si sa, le passioni cambiano, i mecenati passano e questo nucleo importante di opere non era mai stato visto da nessuno: «A parte me che le ho create e il collezionista che le ha acquistate, nessuno le ha mai viste», afferma Bonomi.
Dopo la scomparsa di Bonato, gli eredi hanno voluto razionalizzare la collezione e di fronte alla necessità di vendere gli immobili si sono trovati di fronte a un patrimonio immateriale non certo monetizzabile in tempi brevi di cui si volevano disfare. Per fortuna le settanta opere non sono finite al macero o andate disperse e attualmente appaiono perfettamente archiviate e restaurate.
Si tratta di un nucleo importante che ben sintetizza la prima fase dell’indagine condotta da un artista geniale, fortemente trasgressivo in grado di sviluppare la poetica come meccanismo di destabilizazione. Come scrive Loredana Parmesani, «in quel tempo postmoderno che ha aperto a infinite declinazioni, nelle opere di Bonomi sono già ravvisabili costanti quali l’ironia, il gesto dissacranti nei confronti della bella tecnica, il gesto ampio, visionario e ludico la ribellione a qualsiasi tipo di limite sia stilistico sia tecnico».
Realizzati con materiali disparati quali cartone, sacchi di juta, carte nautiche, teli ferroviari, Bonomi applica a questi lavori un principio a cui rimane sempre coerente, ovvero la creazione di un rapporto di sincretismo tra l’oggetto pittorico e il materiale. Nessuno dei due prevarica sull’altro in una dialettica paritaria dove ciò che è rappresentato non ha un valore autonomo, né prevede una scelta privilegiata, ma ha la medesima dignità del supporto.
Questo crea un senso di straniamento rispetto alla pittura che diventa mezzo e non fine: su una scatola di cartone si staglia dipinto il suo omologo bidimensionale, ovvero una scatola con la scritta «Fragile», mentre una pianta del caffè non può che comparire su un olio su sacco da caffè; i treni prendono posizione sui sacchi usati per scaricare le merci e i rifiuti fanno la loro comparsa su sacchi di polietilene.
Tautologia che determina un campo largo dove il gesto pittorico ha uno sviluppo pressoché infinito e ciascun lavoro non è altro che il tassello di un percorso in progress. Questa riscoperta del resto rappresenta un ulteriore passaggio di un lungo tragitto dove perdersi per ritrovarsi è uno stratagemma quantomai avvincente, soprattutto per un cantastorie come lui che passa con noncuranza da Topo Gigio a de Chirico, da Manzoni a Manzotin.
Nella storia dell’arte i precedenti tautologici non mancano e tra questi basterebbe ricordare i «Bachi da setola» di Pino Pascali dove gli scopettoni per pulire la casa assumono le sembianze dei bachi. O la serie degli «Oli su tela» di Bruno Munari che nel 1986, in occasione della Biennale di Venezia, aveva esposto una serie di opere che proponevano un campionario di oli diversi su tele diverse: olio di lino su tela di lino, olio di arachidi su tela di jeans, olio di papavero su tela di cotone, olio di balena su tela di cotone e così via.
Se Pascali crea uno straordinario inganno visivo, Munari visualizza la definizione facendo migrare il significato da quello letterale a quello fisico. Bonomi invece crea un’assonanza dove la pittura esce da una dimensione solipsistica per diventare parte integrante di una realtà assurda quanto indecifrabile. Bonomi, archeologo a sua insaputa, ha recuperato le tracce fondamentali di un’esperienza ancora tutta da scoprire che oggi celebra il suo ritorno.
Come afferma l’amico artista Gianni Cella: «Corrado è un artista prolifico e polimorfo, un outsider che nell’era digitale mantiene un’anima pervicacemente analogica ma meravigliosamente poetica».
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