Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliIn un sud Italia rurale e in rovina, luminoso e decadente, una famiglia composta dal padre Totore (Luigi Credendino), dalla madre Nannina (Ginestra Paladino) e dal figlio Tubettiello (Pietro Valeri Curti), vestiti come profughi del dopoguerra, cerca casa. Parallelamente, le allegorie della Pittura (Ferdinando Bruni), della Musica (Francesco De Gregori), della Poesia (Nino D’Angelo), del Teatro (Alessandro Haber) e del Nulla (Giovanni Esposito) vagano in cerca di una meta.
Sono prima quattro, poi cinque Re Magi che, in assenza di una cometa che ne illumini il cammino, si muovono incerti, probabilmente sperando di incontrare qualcuno che dia loro concretezza fisica di pittore, musicista, attore, poeta. Intanto il sommo poeta, Dante Alighieri, somiglia più alla sua guida Virgilio che a sé stesso. È lui che conduce lo spettatore nel nuovo film di Mimmo Paladino, «La Divina Cometa» (che sarà proiettato il 22 marzo al cinema Anteo di Milano) nei luoghi abitati da artisti (un iracondo Pontormo) e filosofi (come un Giordano Bruno che si ribella al rogo e un Pitagora interpretato da Sebastiano Grasso, ex critico d’arte del «Corriere della Sera»).
Come nel presepe convivono sacro e profano, spesso all’insegna dell’anacronismo di personaggi e costumi, così il film di Paladino (1948), il secondo dopo «Quijote» del 2006, è una polifonia di voci, linguaggi, citazioni (da Shakespeare a Eduardo), personaggi, luoghi e registri recitativi diversi, in scenografie ambientate in chiese, cave, fabbriche, campagne, uno stadio, un paesino pericolante.
Qui la cometa è una bambina (Emma Arensi), il conte Ugolino è Toni Servillo che recita sullo sfondo di un dipinto di Paladino, il sonoro può essere costituito dalla voce di Carmelo Bene che declama i versi dell’«Inferno» o dalle musiche di Philip Glass e Brian Eno e il santo compositore Alfonso Maria de’ Liguori (Peppe Servillo) è al centro di un tableau vivant che cita il «San Girolamo nello studio» di Antonello da Messina.
Analogamente al «Quijote», anche «La Divina Cometa» è una successione di «quadri» magistralmente composti, in cui ricorrono omaggi diretti e indiretti ad artisti contemporanei: Kounellis nello splendido cameo di Servillo, mentre i lampadari di cristallo che affollano la bottega del vetraio-filosofo (la fortuna umana è come il vetro, lucente ma fragile, dice) ricordano un’iconografia ricorrente nei dipinti di Piero Pizzi Cannella.
E come nelle incisioni di Doré, le più celebri tra le illustrazioni della Divina Commedia, le scene più intense sono quelle ambientate nell’Inferno, un luogo che già affascinò un regista-artista come Peter Greenaway, in un progetto rimasto incompiuto e prodotto da Channel Four nel 1989. L’Inferno di Paladino ha la sua scena più struggente nell’episodio di Paolo e Francesca; quest’ultima prende forma tra i fumogeni rossi di uno stadio deserto, ma, contrariamente a quanto tramanda il racconto dantesco, non le è dato ricongiungersi all’amato, un giovane che urla il suo strazio in dialetto napoletano.
«Quadri», ma anche un’apertura verso ciò che in altro contesto potrebbe essere definita arte performativa: è il caso della scena corale che si svolge nella piazzetta del mercato di un paese alle porte dell’inferno, dove un venditore di scarpe spaiate, un venditore ambulante di vecchie sedie e scialuppe arenate evocano la tragedia dei migranti. Prodotto da Run Film in collaborazione con Rai Cinema, il film, scandito dalla simbologia numerica cara al Paladino artista, è una visionaria riflessione sui destini e sul ruolo delle arti in un’epoca in cui si affollano gli interrogativi e le incertezze e tutto si mescola o si ribalta: emblematici, in tal senso, i Magi che diventano quattro autori in cerca di personaggio.
L’arte non può restare nel mezzo, ammonisce Pontormo; deve prendere una posizione, oggi più che mai. Perché «nel mezzo ci stanno quelli che si accontentano». Il dubbio se l’arte possa salvare il mondo o meno resta sospeso; ma nel dubbio, appunto, conviene affidarsi alla fantasia, come suggerisce Nannina: «La libertà di un uomo si distingue dall’intensità dei suoi sogni».
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