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Bea Scaccia, Look pretty, smell good and hide your cats, 2024 Acrilico e spray sutela 122x152.4 cm Cortesia dell’artistae di Maruani Mercier

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Bea Scaccia, Look pretty, smell good and hide your cats, 2024 Acrilico e spray sutela 122x152.4 cm Cortesia dell’artistae di Maruani Mercier

Le maschere e gli artifici di Bea Scaccia: «Lo stile è la nostra vera anima, la superficie la nostra sola profondità»

La pittrice italiana di stanza a New York dipinge nature morte composte da prompt che sembrano usciti dal bagaglio di una costumista teatrale: travestimenti che danno vita a paesaggi instabili

Giorgia Aprosio

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New York. Tra i riflessi di parrucche scintillanti, perle troppo lucide per essere vere, stoffe acriliche che resistono all’essere stropicciate. Là dove la bellezza tradisce il suo artificio, si sfalda, si maschera, si traveste, nasce l’universo immaginifico di Bea Scaccia. Nata a Veroli (FR) nel 1978, si è formata all’Accademia di Belle Arti di Roma, per poi trasferirsi a New York nel 2011. Qui ha lavorato inizialmente come pittrice negli studi di Jeff Koons e Marilyn Minter, e oggi continua la sua carriera da artista. Dipinge nature morte composte da prompt che sembrano usciti dal bagaglio di una costumista teatrale: cataloghi di artifici e travestimenti che, nell’accumulo e nella deformazione, danno vita a paesaggi instabili, abitati da inquietudini nascoste dove l’ornamento si fa segno, l’eccesso diventa sintomo, l’apparenza cede all’ambiguità, forzando e questionando il confine tra immaginario femminile e grottesco. Le sue opere sono state esposte in contesti istituzionali tra cui il Katonah Museum of Art, Magazzino Italian Art, la Galleria Nazionale di Roma e il Katzen Arts Center di Washington D.C., e fanno parte delle collezioni della William Louis-Dreyfus Foundation e del Portland Museum of Art.

Il tuo lavoro ruota attorno a un’estetica dell’eccesso, del travestimento, della maschera. Qualcosa di apparentemente superficiale, esterno, che invece nella tua pratica si carica di profondità, inquietudine e ambiguità. Non si tratta di decoro, ma di una vera e propria grammatica visiva. Qual è per te il significato dell’artificio?

Penso che, al di là di pochi rarissimi momenti, ogni cosa che facciamo passi sempre attraverso l’artificio, l’imitazione, il mascherarsi. E non lo dico con tono negativo: è semplicemente il criterio con cui percepisco il mondo. Anche il concetto stesso di autenticità è il risultato di un lavoro disciplinare fatto di travestimenti continui, performance che ci avvicinano sempre più a quello che vorremmo essere. Alla base c’è sempre una costruzione, discontinua, cumulativa, che rende l’identità mai del tutto solida. È tutto un farsi e disfarsi: diffido della coerenza e della logicità. Siamo assurdi, artificiali.

Come nascono i tuoi lavori? Dove trovi oggetti e materiali? E come costruisci le tue composizioni?

Ho iniziato comprando collanine di plastica, parrucche economiche e pettinini finti. Le stoffe invece erano vestiti che non mettevo più, in genere economici. E poi c’erano i boa fluorescenti per le feste, le tiare per travestirsi da principessa bionda. Tutto estremamente kitsch. Da qualche tempo non accumulo più nulla: procedo senza riferimenti, come se i miei fossero quadri astratti. È stato un modo per uscire da un processo che conoscevo fin troppo bene: ora non so mai come andrà a finire. Sicuramente comporta qualche parolaccia in più e qualche ora di sonno in meno, ma è anche una sorpresa continua.

Segui una logica più narrativa, coreografica o simbolica?

La logica è sia narrativa che coreografica che simbolica, ma in stadi differenti. Inizialmente è più narrativa, perché scelgo sempre un tema e mi do delle motivazioni; poi diventa simbolica, perché ogni partecipante alla composizione apporta un valore di qualche tipo; infine tutto si ingarbuglia in una stramba coreografia che ha a che fare con quello che vedo davanti ai miei occhi e le mie reazioni a riguardo. Non mi siedo mai quando dipingo. Vado avanti e indietro per lo studio. Mi stacco continuamente dalla tela per paura di perdere di vista l'insieme, di affezionarmi troppo al particolare. È un po’ come se andassi di fretta, come se la superficie della tela scottasse. 

Forse la parte più coreografica del processo sono proprio io.

 

Bea Scaccia, In ruby and white, 2024 Acrilico e spray sutela 152.4x152.4 cm Cortesia dell’artista

Nei tuoi dipinti il corpo non si vede, eppure tutto parla di corpo. È un’assenza attiva che si intuisce nei gesti congelati, negli oggetti manipolati, nei comportamenti dei materiali che sembrano reagire a un’azione appena accaduta.

Ho sempre visto il corpo stesso come un artificio. Ricordo ancora l’impatto di alcune foto di Hans Bellmer. E poi le performance di Rebecca Horn, le bambole di Paula Rego, il lavoro di Mike Kelley ("In order to exist, you have to have a body"), le sculture di Sarah Lucas. Eccesso di corpo, assenza di corpo. Eppure, simili urgenze. Sono questioni in cui mi riconosco. Il mio lavoro riguarda la performance, e la performance riguarda il corpo.

Che tipo di presenza abitale tue immagini?

Qualche settimana fa leggevo un saggio sul teatro dei burattini: i pupazzi, grazie alla loro varietà fisica, sono naturalmente più avanguardia degli attori in carne e ossa. E in qualche modo questo c’entra con il mio lavoro. Spesso, alla base delle urgenze di un artista, c’è quella "domandona" su che cosa ci facciamo qui, come possiamo spiegarci questa surreale situazione chiamata vita. È un privilegio assoluto trastullarsi con domande del genere, me ne rendo conto, ma io ci penso quotidianamente. Sotto ogni mia considerazione politica, di genere, di scelta, c’è una corrente di ansia che riguarda la vita in sé, e questa è per me estremamente legata al corpo. 

Se con il mio lavoro ho scelto di costruire una corporeità-pupazzo assente, fatta di artifici, credo sia anche per nostalgia del gioco e dell’infanzia — nostalgia per quel momento in cui tutti, da ragazzini, abbiamo creduto, anche solo per un attimo, che le bambole fossero esseri viventi. Ogni tanto provo a inserire occhi nelle mie composizioni, li giustifico con la presenza di forme animali, ma finisco sempre per cancellarli. Con gli occhi, si sa, vediamo la realtà — ma nei miei quadri le pupille non hanno alcuna chance di sopravvivenza: diventano bottoni, perle o innocui accessori come mollette colorate.

Perle, mollette, pellicce, parrucche: elementi che evocano una femminilità teatrale e iper-costruita.

Le tue composizioni sembrano attingere a un’estetica che ricorda i guardaroba delle corti settecentesche: penso alle acconciature monumentali sotto Luigi XVI, con strutture architettoniche, fiori, perfino miniature di navi incastonate tra i capelli. L’ornamento, nella storia del costume, è stato spesso un’arma a doppio taglio: esaltazione del corpo e al tempo stesso sua costrizione, strumento di affermazione identitaria tra compiacimento, seduzione e ridicolo.

Ricordo un’incisione satirica di Hogarth chiamata The Five Orders of Perriwigs; l’avevo stampata e appesa in camera quando ero ancora studentessa a Roma. Un insieme di teste imparruccate e di parrucche senza teste — tutte sospese e classificate come fossero elementi architettonici. Un capolavoro.

Come leggi oggi il legame tra ornamento, performatività e costruzione di genere?

Oggi non è paragonabile a quello del passato, si è trasformato e continuerà a farlo: magari non è l’acconciatura con fiori e impalcature, ma è un certo tipo di reggiseno, il botox, il tenersi sempre "in forma". E "in forma" implica sempre una costruzione, anche a livello linguistico, un tentativo, uno sforzo. Cosa succede quando non lo siamo, in-forma? È interessante capire in cosa ci sformiamo, chi diventiamo, se possiamo permettercelo.

E travestirsi è una forma di resistenza?

Io credo ancora nel potere del travestimento. Può creare disagio negli altri, può portare sé stessi a sentirsi altro. Si può prendere una posizione importante anche solo indossando un paio di calzini in un determinato contesto. Lo stile, parafrasando Cocteau, è la nostra vera anima; e la superficie la nostra sola profondità.

Il mostro, come il corpo, nel tuo lavoro è ovunque, eppure non viene mai definito. Non è tanto una creatura, quanto piuttosto un’energia in bilico, un’identità eccedente che non si lascia incasellare .Chi è e cosa rappresenta per te oggi il mostro? E perché torna con così tanta insistenza, sempre travestito da qualcos’altro?

Il mostro ha tante declinazioni, ma ha un valore abbastanza specifico: rimane qualcosa che gli altri temono e cercano di controllare. È il grottesco, e quindi, per come la vedo io, rappresenta la condizione umana in sé. La nostra posizione esistenziale, se analizzata per quello che è, con semplicità, è grottesca, terrorizzante. Ma la società occidentale contemporanea - che vacilla sempre di più - detesta il mistero, le non-risposte, i grigi (anche se poi crede ai fantasmi e ai tarocchi), ostenta una sicurezza quasi isterica. Il mostro, invece, è tutto fatto di grigi, di dubbi: e quindi va sconfitto. 

Nonostante i mostri cambino sempre, senza in fondo cambiare mai, sono piuttosto di frequente femminili...

Penso alla figura di Eve, che per anni ha abitato i tuoi lavori: una presenza mutevole, quasi corale, tra alter ego, doppio e simbolo.Qual era il suo significato iniziale? E come si è trasformata nel tempo?

Sono molto affezionata a Eve. Il significato iniziale è difficile da definire. Con chiarezza ricordo che è nata in un periodo importante. Appena finiti gli studi in Accademia, al di là dei tanti lavori per sopravvivere, continuavo a dipingere seguendo quanto imparato con Gino Marotta. Ma non funzionava affatto: mi ero perdutamente incartata. Allora ho messo via tutto e ho cominciato a usare soltanto la matita e la carta. Sono cresciuta con una passione enorme per l’animazione, per i manga, per le storie in generale. Quindi, nel momento in cui ho deciso di mettere da parte quanto appreso negli anni di Accademia, tutto quello che ero prima è tornato a galla.

Nella mia prima mostra personale alla Ugo Ferranti avevo concepito le opere secondo una struttura narrativa, quasi frame-by-frame. Il personaggio non aveva ancora un nome, ma era già Eve. Poi a New York è diventata più una maschera, un pupazzo, un po’ "trickster", un po’ commedia dell’arte. Quando ho iniziato a costruire veri pupazzi per fare animazioni stop-motion, allora Eve è scomparsa, ma in alcune mie storie segrete lei c’è sempre.

 

Bea Scaccia, Chatty, but shiny and fit-with veiled cats, 2024 Acrilico e spray sutela 183x152.4 cm Cortesia dell’artistae di Maruani Mercier

Chi — o che cosa — credi abbia preso oggi il suo posto?

Questo non lo so. Forse sono rimasti i suoi costumi di scena.

A cosa lavori in questi giorni?

Sto lavorando a otto, nove tele contemporaneamente. Ho diverse mostre in autunno e tanto da fare. Una delle serie ha come titolo “Mood Swings”, umori altalenanti, e le composizioni dei quadri sono effettivamente altalenanti; quindi, ho inserito scarpette che volano, corde e catene di altalene. Ho scelto il termine “Mood Swings” perché è anche estremamente collegato alla femminilità, agli umori, agli ormoni. I quadri li sto preparando per una personale a Bruxelles da Maruani Mercier.

Di recente, poi, ho iniziato a lavorare ad alcune opere più piccole, che mi entusiasmano molto, e hanno a che fare con la pancia, l’apertura, la formazione. Quelle saranno per un progetto che mi sta a cuore: una mostra delle mie opere insieme alle sculture di Gino Marotta, da Richard Saltoun a Roma. La mostra sarà curata da Paola Ugolini.

E cosa è emerso nei nuovi lavori?

Sono presenti molti più dettagli legati alla domesticità, alla casa — luogo rassicurante e al contempo spaventoso per antonomasia. C’è una frase nel libro The Hearing Trumpet di Leonora Carrington che dice: "Le case sono in realtà corpi. Ci colleghiamo a muri, tetti e oggetti proprio come ci aggrappiamo al nostro fegato, ai nostri scheletri, alla nostra carne e al nostro sangue." Anche questa, proprio come l'incisione di Hogarth, l’ho scritta e appesa al muro, insieme ad altre frasi che mi servono.

Tra riferimenti affettivi e radici profonde, mi viene da chiederti: riemerge mai nei tuoi lavori qualcosa delle tue radici italiane? Un gesto, un’ossessione formale, una memoria visiva o anche soltanto un eco?

Certo, molto spesso in realtà. Le memorie visive sono tante. Sono cresciuta in campagna, in un piccolo paesino cattolico. Gli armadi delle mie nonne, gli odori, il “vestito buono per la domenica” impregnato di naftalina. Penso spesso anche ad alcuni poster di un artista locale che avevamo in casa. Erano degli Arlecchini accasciati, abitanti di sciatte stanze buie. Li guardavo di continuo. Erano quadri brutti ma comunque efficaci quando ero bambina. Mi domando spesso quanto abbiano influito.

E poi c'è la mia ossessione con il segno, che penso venga dalla mia passione per Alberto Savinio. Lo adoravo, soprattutto per gli scritti di teatro. Qualche anno fa, il CIMA — che ahimè ha chiuso — gli ha dedicato qui a New York una bellissima mostra. Ho riconosciuto le sue opere come fossero cari amici che non vedi da tanto, ma con cui stai sempre bene.

Bea Scaccia, Is there a dirty secret or moonlight in her hair, 2023 Acrilico e spray sutela 132.x122 cm Cortesia dell’artista

Giorgia Aprosio, 21 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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