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Giorgia Aprosio
Leggi i suoi articoliNathanaëlle Herbelin (1989, Tel Aviv) dipinge opere in cui si entra in punta di piedi. I suoi interni accolgono lo spettatore, purché sia disposto a non disturbare una placida quiete, attraversata dalla sensazione che qualcosa di prezioso stia per accadere. Stanze, figure, oggetti: tutto nelle sue tele sembra trattenere il respiro, come se la pittura custodisse il senso di un momento appena svanito o sul punto di manifestarsi. Immagini sospese, dove il possibile si confonde con il ricordato, le opere di Herbelin rivelano come in realtà la memoria si radichi più nel quotidiano che nell'eccezione. Nathanaëlle Herbelin vive e lavora a Parigi. Le sue mostre personali recenti includono Feel the pulse, in corso all'He Art Museum di Shunde, in Cina (fino all'8 giugno 2025); Être ici est une splendeur, Musée d'Orsay, Parigi (2024); À la surface, le fond de l'œil, Institut Français di Tel Aviv (2022); Et peut-être que ces choses n'ont jamais eu lieu, Umm Al Fahem Palestinian Art Center (2021); Devenir Peinture, premio Yishu 8, George V Art Centre, Pechino (2021). La sua opera è stata esposta in mostre collettive al FRAC Champagne-Ardenne (2021); Passerelle Art Center, Brest (2020); Musée de l'Abbaye Sainte-Croix (Les Sables-d'Olonne, 2019); Bétonsalon, Parigi (2019); Musée des Beaux-Arts di Rennes (2018); Collection Lambert, Avignone (2017) e Fondation d'Entreprise Ricard, Parigi (2017). L'intervista è stata realizzata in occasione della mostra And there is a place you will not be able to return to, in corso da Xavier Hufkens a Bruxelles fino al 21 giugno 2025.
La tua pittura sembra emergere da una dimensione profondamente intima. In molte opere si percepisce la tua presenza come osservatrice silenziosa, quasi fisicamente parte delle scene che rappresenti. Penso a Charlotte (2023), colta nell'atto di allacciarsi un sandalo, o a Jérémie au bain (2022), in cui il corpo maschile è ritratto in uno stato di vulnerabilità e rilassamento. O ancora a Elisha, Bronx (2022), intensa immagine della maternità in cui la persona ritratta guarda verso l'artista - e, attraverso di lei, verso lo spettatore. Come ti poni in queste relazioni intime, soprattutto quando ritrai persone a te vicine?
Hai colto perfettamente nel segno. I miei dipinti restituiscono l'impressione di guardare uno spazio poco dopo che qualcosa è accaduto, o appena prima che qualcosa stia per accadere. Cerco di cogliere quel momento in cui le particelle nello spazio sembrano ancora in movimento, o sul punto di riassestarsi. Quando dipingo qualcuno con cui ho una relazione stretta, quotidiana, accade qualcosa di interessante. Sono familiare con la loro presenza, soprattutto se si tratta di familiari o amici, eppure provo nei confronti della loro figura un senso di estraneità. Rappresentarli diventa un processo di studio e ri-conoscimento della persona che ho davanti. A volte mentre lavoro pongo loro domande su temi di cui normalmente non parleremmo, nel tentativo di raggiungere un nuovo livello di intimità, di scoprire qualcosa che non conoscevo. Qualcosa di diverso accade quando dipingo mia figlia: ogni volta il ritratto finisce per essere iperrealista, come se dovesse necessariamente assomigliarle esattamente. È qualcosa che succede solo con lei.
Come vivi il tuo ruolo di artista in questa triangolazione? Trasmettere l'identità di persone a te care a un pubblico che non le conosce?
Spesso uso persone a me vicine come tramite per una preoccupazione o un sentimento più ampio. Per esempio, quando voglio esplorare la paternità in senso sociale, dipingo il mio compagno con nostra figlia. Se il soggetto è il parto, per rappresentarlo in modo universale, mi rivolgo a un'amica. Quando affronto questioni legate alla mascolinità in Medio Oriente, dipingo persone a me vicine provenienti da quella regione, come l'architetto che conosco. Le figure acquisiscono una dimensione ulteriore grazie a un lungo processo di osservazione, portandomi al di là della relazione che ci lega. Alcuni ritratti, invece, sono molto diretti. Il dipinto di Lucas, per esempio, cattura proprio questa persona singolare, come una presenza unica. Ricordo di averlo letteralmente rincorso per strada per chiedergli se fosse disposto a farsi ritrarre. In quel momento volevo rappresentare qualcosa di molto preciso. Mi è difficile dire esattamente quale sia la mia posizione tra il soggetto del dipinto e lo spettatore. Suppongo che il mio sguardo diventi esso stesso un soggetto, come d'altronde è sempre stato nella pittura.
Ci puoi dire qualcosa di più sulla tecnica? In particolare sulla dimensione materiale del colore nel tuo lavoro?
La texture dei miei dipinti nasce in fase di preparazione. Uso calce e colla di coniglio. Di recente ho iniziato a sperimentare l'encausto, antica tecnica egizia in cui il pigmento si mescola a cera fusa. Una delle difficoltà dell'encausto è mantenere la cera calda e fluida abbastanza a lungo da poterla lavorare prima che si solidifichi. La soluzione che ho trovato è usare una piastra da Shabbat - quella utilizzata dagli ebrei osservanti per evitare di accendere il fuoco durante lo Shabbat. Funziona perfettamente per mantenere il calore costante. Amo la sensazione da laboratorio che invade il mio studio quando lavoro in questo modo. Procedo per tentativi. C'è qualcosa nel processo che ha un sapore alchemico...

Jérémie donne le biberon, 2025 oil on wood 183 × 135 cm, 72 × 53 1 ⁄8 in. Courtesy the Artist and Xavier Hufkens, Brussels
E poi, come procedi? Parti da modelli dal vero, fotografie, o da ricordi che emergono gradualmente?
Dipingo molto dal vero - lo adoro. È come una cerimonia. Mi siedo con la persona che posa per me e parliamo per ore. È un momento prezioso che conserva la naturalezza di uno scambio, pur restando consapevolmente un momento profondo di connessione intima. Lavoro anche a partire da fotografie: di luoghi o momenti che ho catturato, di persone che non ci sono più, che vivono lontano, o scene dal mio passato. Rivisitare quei momenti attraverso la pittura mi porta a esplorare aspetti che all'epoca non riuscivo a elaborare o affrontare pienamente.
Nelle tue tele si ha spesso la sensazione di sbirciare nella vita privata di qualcuno, come se il dipinto fosse una finestra su momenti fugaci, silenziosi. Un punto di vista discreto, insieme intimo e distaccato, che richiama alla memoria l'infra-ordinario di Georges Perec, il suo invito a esplorare "ciò che accade" proprio "quando non accade nulla"...
È un concetto che risuona profondamente con me. Non stabilisco mai una gerarchia tra l'ordinario e lo straordinario, né in termini di importanza né di attenzione. Potrei dipingere il soggetto più "noioso", banale, perché credo che la pittura abbia il potere di elevarlo. Al contrario, potrei avvicinarmi a qualcosa di spettacolare con un atteggiamento distaccato, per riportarlo a terra, per renderlo umano.
E cosa significa scegliere di rappresentare l'ordinario, oggi?
Negli ultimi anni, eventi significativi della mia vita mi hanno portata a creare opere che vanno oltre le scene quotidiane, addentrandosi in momenti di dramma personale - mio o delle persone attorno a me. In alcuni dipinti, come quelli di Charlotte o Merlin, ho avuto l'opportunità di raccontare qualcosa di loro che non avevano mai condiviso apertamente. Charles ha fatto coming out con Charlotte, e Merlin mi ha parlato dei cambiamenti che stava attraversando nella sua adolescenza. Mi sono sentita complice del loro segreto e ho criptato quell'intimità all'interno dell'opera stessa. Insieme abbiamo dato forma e immagine agli aspetti più nascosti delle loro vite. Un altro esempio è una serie di dipinti d'addio dedicati ai miei nonni in cui ho cercato di esprimere la liminalità del gesto funerario: la transizione tra la loro presenza e la loro scomparsa, tra ciò che hanno rappresentato nella mia vita e il vuoto che hanno lasciato. È stato anche un modo per esprimere la mia profonda gratitudine e rispetto. Forse, nel processo del congedo, ho usato la pittura come un modo per dire un addio lento e tenero - qualcosa che nella vita reale è quasi impossibile. Ma nella pittura, tutto è possibile.
Tornando a Perec: in un universo intimo come quello che rappresenti, che ruolo giocano le "cose" - gli oggetti, gli interni, le piccole presenze materiali che popolano le tue scene?
Gli oggetti nei miei dipinti funzionano quasi come rituali voodoo. Nutro un grande interesse per il ruolo mistico, profetico e metafisico della pittura. Spesso la penso in relazione a tradizioni come gli ex voto o agli oggetti magici dell'antico Egitto, accompagnati da formule rituali. Per me dipingere è un atto di risposta al mondo e, allo stesso tempo, il mondo è influenzato dai dipinti che vi immettiamo. Hanno un peso metafisico, difficile da definire ma reale. Fanno qualcosa. Gli ex voto sono per me testimoni di speranza. Come scrive Georges Didi-Huberman, sono immagini vulgari, organiche, abbondanti, trascurate dalla storia dell'arte, ma proprio per questo potenti. Esistono al di là delle narrazioni levigate, in uno spazio di urgenza e devozione. Quella sincerità è ciò che aspiro a toccare nel mio lavoro.

Premier rendez-vous, 2024 oil on wood 19 × 24 cm, 7 1 ⁄2 × 9 1 ⁄2 in. Courtesy the Artist and Xavier Hufkens, Brussels
Durante la tua mostra al Musée d'Orsay (2024) si è scritto molto delle affinità tra il tuo lavoro e i Nabis, anche per via dell'accostamento con opere di quel movimento. Ma c'è anche qualcosa di polveroso, ovattato, quasi tattile nella superficie dei tuoi dipinti, una qualità che evoca quiete, silenzio, sospensione. Per un osservatore italiano, questa sensibilità materica richiama inevitabilmente Giorgio Morandi.
Sì, Morandi ha avuto una grande influenza sul mio lavoro - o meglio, sul mio approccio alla pittura. È stato lui a farmi capire che si può dipingere qualsiasi cosa: è il modo in cui lo si fa a determinare la qualità e l'importanza dell'opera, non il soggetto. Quello che mi colpisce di più è il suo tatto, la saggezza e la sottigliezza del suo lavoro. È ciò che gli ha permesso di fare quello che ha fatto, con naturalezza. Grazie a lui ho scoperto anche un processo meditativo: quando ti concentri completamente su qualcosa di semplicissimo, questo smette di essere funzionale o concettualmente leggibile, e appare come un'entità astratta che contiene l'essere non concettuale, o la dinamica degli elementi nello spazio. Può diventare una sorta di piano di fuga. Detto ciò, a differenza di Morandi - che riuscì a ritirarsi dal mondo persino durante due guerre mondiali - io non ho mai sentito il bisogno, né la voglia, di fuggire in quel modo.
Come nel caso di Conséquence non négligeable (2025), la natura morta con piatto e uova ora in mostra da Xavier Hufkens. Formalmente ricorda il modo in cui Morandi lavorava con la luce, ma il titolo suggerisce un significato simbolico, reale, quasi drammatico.
Nei mesi precedenti alla mostra non mi sentivo più attratta da scene semplici o intime. Avvertivo piuttosto l’urgenza di confrontarmi con gli aspetti più drammatici, vulnerabili, talvolta oscuri della vita. Penso ad Amir (2024), presente anche in mostra: ritrae un giovane uomo disteso, con gli occhi aperti, apparentemente privo di vita. Di lui sappiamo solo il nome, Amir, che esiste sia in arabo che in ebraico. Questa doppia appartenenza è significativa. È il modo più crudo che ho trovato per affrontare la realtà di ciò che sta accadendo “laggiù”, proprio adesso. E quella realtà – questa realtà – oggi più che mai parla soprattutto di morte, di troppe persone che stanno morendo.
Il titolo che hai scelto per la mostra, And there is a place you will not be able to return to, suggerisce un senso di perdita, qualcosa che non è più presente, o che sopravvive solo nella memoria. Da cosa prende ispirazione?
Ho scelto un verso da una poesia di Yehuda Amichai, un poeta israeliano che amo profondamente. Abbiamo lavorato a lungo sulla traduzione, cercando di restare il più possibile fedeli all'originale per conservarne la delicatezza del sentimento. Il verso ha una doppia carica emotiva: da un lato parla di perdita, di una nostalgia profonda; dall'altro si riferisce a qualcosa che non è ancora del tutto perduto. Indica un luogo - o forse un momento - che presto diventerà inaccessibile, come altri lo sono già diventati in passato, ma che non è ancora del tutto svanito. Contiene un senso di urgenza, un'ultima possibilità di salvare qualcosa, di afferrare un frammento fugace del presente che sta già cominciando a dissolversi.
Il ritratto di tuo nonno, Arie (2024), rappresenta il punto di partenza simbolico ed emotivo da cui si snoda l’intera mostra. La sua presenza – o assenza – sembra irradiarsi in tutto il corpo di lavoro. Come è nato questo dipinto, e in che modo si collega alle altre opere?
Il ritratto di nonno Arie ruota attorno alla rappresentazione della perdita di persone care, quelle davvero insostituibili. Uno degli aspetti più intimi del dipinto è racchiuso nel mio forte desiderio di trasmettere l’impatto che il suo spirito ha avuto sulla mia formazione: incarnava valori umani solidi e una forza morale incrollabile, due qualità che mi hanno profondamente plasmata. In questo senso l’opera riflette anche sull’assenza inquietante di quei valori nel mio paese oggi – un luogo che, per molti versi, ha ceduto alla paura e alla violenza come forze dominanti. Questo cambiamento mi spaventa, perché lo spazio che lui rappresentava per me non esiste più. Ha trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita sul divano rosso raffigurato nel dipinto. Da lì, spesso sembrava osservare in silenzio il declino di ciò che lo circondava. Dopo la sua scomparsa, è diventato impossibile tornare in quel luogo, trovarlo così com’era.
Attraverso i suoi protagonisti, la mostra sembra interrogare anche la mascolinità contemporanea. Amir (2024), il ritratto di un ragazzo senza vita, entra in dialogo con Jérémie donne le biberon (2024), in cui un uomo allatta un neonato davanti a uno skyline notturno. Sono immagini di fine e di inizio – due esperienze tradizionalmente associate all’iconografia femminile – che qui appaiono, invece, incarnate da figure maschili. Quanto ha inciso questo aspetto nel lavoro alla serie?
Penso davvero che imponiamo troppe responsabilità agli uomini, e forse sì, è ora di smettere di farlo. Nella mostra ci sono anche il soldato francese, Mathieu, e suo figlio Melville, la cucina di un tossicodipendente, l'architetto e altri. E poi c'è solo una donna, che partorisce. Credo che il mio messaggio sia questo: osserviamo e ripensiamo i ruoli che abbiamo assunto e quelli che abbiamo attribuito agli altri. Proviamo qualcosa di diverso, qualcosa che possa condurci in una direzione migliore. È per questo che ho dipinto l'uomo a capo della tavola, che scommette - un'allegoria dei leader di oggi, che sembrano giocare d'azzardo con il nostro futuro e, peggio ancora, con il nostro presente, al prezzo più alto possibile.

Dîner aux œufs durs, 2024-2025 oil on canvas 200 × 230 cm, 78 3 ⁄4 × 90 1 ⁄2 in. Courtesy the Artist and Xavier Hufkens, Brussels
La figura appare in Dîner aux œufs durs (2025), una delle opere più incisive della mostra. Si tratta di una cena immersa nell'oscurità, illuminata dalla tovaglia bianca della lunga tavola imbandita con piatti di uova sode. Gli ospiti sono dispersi: chi fissa il vuoto, chi beve, chi gioca a carte. Una donna guarda lo spettatore mentre taglia pane e forse del formaggio.
Ho iniziato a lavorare su questo dipinto con un intento tecnico: decifrare – o meglio, decostruire – la composizione di una scena di cena. È un soggetto ricco, complesso e affascinante, che esploro da anni. In questo caso mi sono ispirata a Die Freunde (Tafelrunde) (1918) di Egon Schiele e alla sua coesione geometrica, che mi ha spinta a costruire una tavola composta da più sezioni: collegate tra loro, ma anche chiaramente distinte.
A un primo sguardo potrebbe sembrare una scena intima e domestica, ma più a lungo la si osserva, più si carica di ambiguità: non è chiaro cosa stia realmente accadendo, né se si tratti davvero di una famiglia – almeno non nel senso tradizionale del termine. È più una cena simbolica, quasi metafisica. Lo lascia intendere lo sguardo della donna che incrocia il nostro, come a dire: ‘Sai cosa intendo…’
Le figure nel dipinto provengono da contesti diversi: alcune sono persone incontrate durante una residenza in Cina, altre amici e colleghi di Parigi. Ci sono anche figure simboliche o concettuali, come il leader che gioca d’azzardo a capotavola – di cui parlavo prima – attraverso cui affronto il cinismo e il nichilismo di chi scommette sulla vita umana, forse persino su quelle degli altri commensali. Quello che vediamo non è tanto un incontro tra individui, quanto un’intersezione di eventi. Tutto si svolge in uno spazio oscurato, illuminato soltanto dalla tovaglia e dalle candele. I personaggi sono tenuti insieme debolmente, solo dal rituale del lutto ebraico: l’usanza di mangiare uova sode, simbolo della morte e del ciclo della vita.
Come collochi questo dipinto in relazione ai tuoi lavori precedenti? E cosa anticipa di quelli che verranno?
Non esiste una relazione fissa tra i miei lavori, non lavoro mai davvero a serie. Le transizioni tematiche e tecniche avvengono continuamente, e quel senso di mutamento costante è essenziale per la mia pratica. Per me è fondamentale restare in uno stato di ricerca, libertà, scoperta e sviluppo. Lavoro sempre a partire da un'urgenza - dal bisogno di comprendere qualcosa. Sono sempre in una fase di passaggio. Alcuni di questi richiedono molto coraggio e ultimamente sto cercando di averne, sempre di più.

Mathieu et Melvil, 2024 oil on canvas 140 × 130 cm, 55 1 ⁄8 × 51 1 ⁄8 in. Courtesy the Artist and Xavier Hufkens, Brussels
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