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Una delle guide volontarie del Metropolitan Museum of Art di New York durante una visita guidata

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Una delle guide volontarie del Metropolitan Museum of Art di New York durante una visita guidata

Le turbolenze del personale dei musei americani

La questione dell’equità retributiva negli Stati Uniti ha una storia molto lunga

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Maria Sancho-Arroyo

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Per molti anni il pensiero comune sulle carriere museali, negli Stati Uniti e altrove, è stato il seguente: i lavori nei musei possono essere meno retribuiti rispetto a posizioni simili nel settore privato, ma compensano in prestigio e soddisfazione ciò che manca alla busta paga. Chi intraprende la carriera museale deve aspettarsi di «fare la gavetta» in posizioni poco rimunerate, part-time o addirittura non retribuite per anni, per poi salire di livello fino alla dirigenza, dove la retribuzione è un pochino migliore anche se resta ancora sotto la soglia del minimo del settore privato. Alla fine i sacrifici saranno ripagati dal privilegio di svolgere un lavoro così importante.

Se questi presupposti sono stati mai validi, ora non lo sono più, per molte ragioni. La prima è che «tirare avanti» non è più come una volta: l’aumento dei costi di vitto, alloggio, trasporti, assistenza a bambini e ad anziani e sanità significa che i lavoratori di oggi guadagnano molto meno. Il secondo problema è quello delle credenziali: i lavoratori dei musei che hanno pagato per l’istruzione superiore che ci si aspetta in questo settore, spesso hanno contratto un debito studentesco significativo che peserà sui loro bilanci per decenni a venire.

In Italia questo aspetto è meno rilevante grazie al costo ridotto dell’università pubblica e al fatto che la maggior parte degli studenti vive in famiglia. Negli Stati Uniti, invece, dove le università pubbliche (l’opzione più economica) costano in media 100mila dollari per i quattro anni di corso di laurea, il debito medio degli studenti si aggirava intorno ai 37.574 dollari alla fine del 2022.

Infine, in passato, il lavoro nei musei poteva essere appannaggio di pochi privilegiati la cui retribuzione era spesso integrata da uno stipendio migliore del coniuge o dal patrimonio familiare. Ma con la democratizzazione del settore sempre più persone vi accedono da contesti che rendono impossibile accettare salari inferiori a quelli di mercato. Pertanto i musei non potranno mai raggiungere gli obiettivi di una piena diversità rappresentativa senza la garanzia di un salario adeguato. La questione dell’equità retributiva negli Stati Uniti ha una storia molto lunga.

Per anni i musei hanno impiegato molto personale a tempo parziale e meno a tempo pieno, più personale le cui settimane lavorative arrivavano appena al di sotto del livello che li avrebbe qualificati per la pensione, e anche più personale «occasionale» o freelance le cui ore potevano essere ridotte, e infine più volontari che ricoprivano ruoli un tempo retribuiti. Oggi la situazione non solo non è migliorata, ma è anche meno stabile e rimunerativa rispetto a quattro decenni fa.

Poco prima della pandemia la consapevolezza delle disuguaglianze sistemiche nell’occupazione museale ha raggiunto un nuovo livello di preoccupazione. Il virale documento di trasparenza salariale 2019 di «Arts + All Museums» ha creato un momento di svolta, rendendo evidente quanto variabili, arbitrari e bassi fossero gli stipendi dei musei. Le persone hanno iniziato a fare i conti, a prevedere i guadagni di una vita e a rendersi conto che gli stipendi dei musei sono spesso inferiori al salario necessario per sopravvivere in un determinato luogo. Si è diffusa la sensazione che il settore museale non sia disposto o non sia in grado di retribuire adeguatamente i lavoratori.

Di contro i bilanci dei musei americani sono stati a lungo costruiti sulla base del presupposto di salari inferiori a quelli del mercato privato. Esplicitamente o implicitamente, i musei hanno accettato la nozione di «bonus di prestigio», ovvero che il loro lavoro fosse così intrinsecamente gratificante da non dover competere con i datori di lavoro privati in termini di retribuzione. Ma, come hanno sostenuto i lavoratori del Brooklyn Museum, «solo di prestigio non si mangia». Infatti, numerosi musei hanno intrapreso iniziative per sfidare le norme del minimo sindacale. Rispondendo alle sollecitazioni del National Emerging Museum Professionals Network, molti musei hanno posto fine agli stage non retribuiti.

Per esempio, l’Art Institute di Chicago, il Frick Pittsburgh e altri istituti hanno sostituito i programmi di docenza non retribuiti con posizioni di educatori rimunerati. Il Bullock Texas History Museum sta sviluppando posizioni ibride a tempo pieno che combinano il lavoro dei servizi ai visitatori con apprendistati in altri dipartimenti.

Guardando al futuro i musei avranno più successo quando le persone che vi lavorano saranno giustamente sostenute. L’assistenza e il benessere dei dipendenti, un salario dignitoso, una leadership condivisa e strutture finanziarie stabili creano le basi per consentire ai membri del personale del museo di dare il meglio di sé, apportando creatività, pazienza e l’impegno necessario al loro lavoro.

Maria Sancho-Arroyo, 16 maggio 2023 | © Riproduzione riservata

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