Il trauma, personale o sociale, fa parte della storia dell’uomo e non a caso gli storici dell’arte vi individuano spesso l’origine di uno stile o un’iconografia. Che siano le artiste le più numerose cultrici della poetica del trauma è un dato di fatto le cui ragioni sono facilmente immaginabili, soprattutto in un sistema che replica in maniera forse ancora più efferata il dominio del maschio e il patriarcato vigenti nel mondo extra-artistico. Frida Kahlo e Louise Bourgeois sono, per ragioni diverse, tra le più popolari interpreti di questi contenuti.
Intorno al trauma si agita, a partire dal XX secolo, una folla di terapeuti o per lo meno di artisti per i quali il concetto di cura è parte integrante della loro opera. Se però Lawrence Carroll si limita a prestare le cure necessarie a carte e legni lacerati dal tempo o dal consumo individuando nella cera l’unguento più adatto, Marina Abramovic ha pretese terapeutiche e salvifiche ben più elevate ed ambiziose, soprattutto laddove pone il suo corpo e la sua resistenza al martirologico servizio di un’arte reazionale.
Ciò che distingue l’artista serba da Luise Bourgeois è, tra le altre cose, il fatto che la prima asserisce di prendersi cura del prossimo mentre la sua più anziana collega attraverso l’arte ha cercato di curare se stessa. Abramovic non esisterebbe senza un pubblico e non a caso è una performer; Bourgeois ha scritto nel suo diario: «Essere artista garantisce ai tuoi simili che il logoramento e il tedio della vita non ti renderanno un assassino. Dio ha inventato l’arte (in ogni sua forma) come strumento di regolazione e sopravvivenza. Il pubblico è una fesseria, non è necessario. La comunicazione è rara; l’arte è una lingua come il cinese. Chi la capisce?».
Il pubblico, comunque, non manca né all’una né all’altra: nel primo caso per l’irresistibile pulsione al protagonismo dell’osservatore promosso ad attore nelle performance relazionali; nel secondo per l’attrazione morbosa e voyeuristica delle persone per le disgrazie e per i più intimi segreti di famiglia: cosa, questa, che ha enormemente arricchito il numero degli appassionati di artiste come Frida Kahlo, Louise Bourgeois o, in casa nostra, Carol Rama.
Bourgeois non è pop come Frida perché al suo personaggio manca l’elemento, determinante in questi casi, di una vita sessualmente molto attiva e il physique du rôle da diva, ragion per cui la sua collega messicana, interpretata da Salma Hayek, ha goduto di un’eco cinematografica che ne ha esaltato eros e mauditisme, al punto da raggiungere lo share di un’altra pittrice sopravvalutata ma infinitamente più glamour di quel grande pittore che fu invece suo padre Orazio, come Artemisia Gentileschi.
Però la sua tarda rivalutazione le ha garantito una lunga vita (anche postuma) in due fasi. La prima all’inizio degli anni Novanta, quando nella nouvelle vague femminista americana Louise Bourgeois divenne un punto di riferimento per artiste come Kiki Smith o Rona Pondick, nella cui opera la corporalità, anche quella più recondita e tabù e il rapporto madre e figlio hanno un ruolo tematico fondamentale.
Nella fattispecie, Kiki Smith, prima di diventare quell’amatissima narratrice di fiabe disegnate a suon di micetti, lupi mansueti e cerbiatti, ritraeva se stessa nuda e carponi con un lungo segmento intestinale o fecale che come una coda ne inseguiva il regressivo incedere di donna violata e afflitta dalla perdita del sé. Con questa opera, nel 1993, partecipò alla mostra «Post-Human», curata da Jeffrey Deitch che con quel titolo diede una definizione a una nuova generazione di artisti.
Il decollo definitivo di Bourgeois, una cui opera quest’anno è stata venduta a 40 milioni di dollari dalla galleria Hauser & Wirth ad Art Basel, fa capo invece all’inizio degli anni Duemila, quando nelle biennali d’arte contemporanea si diffonde, dopo tanta enfasi sul giovanilismo, il culto degli anziani non del tutto valorizzati o spremuti, un’ondata gerontofila e politicamente corretta che ha un suo risvolto mercantile nelle sezioni delle fiere in cui trovano spazio vecchi astri in declino e talenti troppo presto dimenticati che, in virtù di curriculum di tutto rispetto offrono ai mercanti e ai compratori un nuovo terreno di caccia. Sta di fatto che alla Biennale di Venezia il numero di artisti defunti da qualche anno raggiunge quote piuttosto inquietanti.
L’ago è dolce, lo spillo è feroce
La gran moda dell’arte tessile, intesa come arte contemporanea in cui il cucito e il ricamo danno fiato alla rinnovata retorica della manualità, della lentezza, della ritualità e del recupero di reperti di cui «prendersi cura» ha fatto il resto: oggi i pupazzi cuciti in vari tessuti sono uno dei più amati marchi di fabbrica di Bourgeois. Phyllida Barlow, l’artista britannica chiamata a 73 anni a rappresentare il suo paese alla Biennale di Venezia del 2017 (un’edizione gremita di arte tessile in tutte le sue forme e fibre, lana inclusa, come nel casi di Sheila Hicks, che all’epoca aveva 83 anni), è un esempio di entrambe le tendenze: della smania delle scoperte riscoperte di anziani e spesso appartati talenti e del tessuto come materiale scultoreo.
Si potrebbe dire lo stesso di Maria Lai. Ma rispetto a queste sue colleghe, Bourgeois poteva vantare un apprendistato nell’atelier dei genitori, apprezzati restauratori di arazzi medievali e rinascimentali ad Aubusson presso Parigi, dov’era nata il 25 dicembre 1911. Il fatto che molti clienti dell’azienda di famiglia fossero americani afflitti da puritanesimo, e che parte del «restauro» consistesse nella castrazione di ignudi eroi (la giovane Bourgeois aveva una piccola collezione di peni e testicoli amputati dagli arazzi) ha fornito ottimo materiale ai critici a caccia delle radici delle ossessioni di un’artista il cui repertorio iconografico è ricco di elementi e simboli genitali.
Quanto all’arte tessile, peraltro, già nel 1969 Bourgeois ebbe modo di mettere alcune cose in chiaro: «Il fatto che io abbia un’esperienza nel campo della tessitura e che sia diventata scultrice significa che ho trovato il medium della tessitura incompatibile con l’arte dello scultore. Il vuoto e il pieno, essenziali allo spazio e al volume della scultura, non sono presenti, perché c’è uno sfondo che non è mai davvero perforato». Questo fu il suo commento alla mostra «Wall Hangings», organizzata in quell’anno dal MoMA di New York, dove 25 artiste (tra le quali Anni Albers e Magdalena Abakanowicz) e quattro artisti esposero appunto opere nate dalla tessitura.
Con buona pace delle studentesse e degli studenti delle Accademie di Belle Arti di oggi che ritengono, attraverso interventi di ago e filo, di conferire un tocco di attualità alle loro creazioni, infatti, la «textil art» è un’anziana signora e (colpo di grazia) persino quell’omaccione umbro di Alberto Burri, cacciatore accanito con forti simpatie di destra, attribuiva alla cucitura dei suoi sacchi un certo qual valore segnico.
«Ad Aubusson, ricordava Bourgeois, le donne tessevano e gli uomini tagliavano pietre nelle cave. Da bambini usavamo gli arazzi per nasconderci. È una delle ragioni per cui me li immagino tridimensionali (…) Gli arazzi Gobelins, passati di moda e abbandonati, si salvarono perché, nel clima rigido di Aubusson, vennero usati per avvolgervi i cavalli o a protezione delle mucche partorienti. La mia personale consuetudine con gli arazzi è perciò eminentemente scultorea, in termini di tridimensionalità». Ciò non sottrae alla metafora della sutura come atto riparatore, come «cura», appunto, il suo forte significato: «Sono sempre stata affascinata dall’ago, dal suo potere magico. L’ago è usato per riparare il danno. È una richiesta di perdono. Non è mai aggressivo, non è uno spillo».
La questione della castrazione, in effigie o in psicanalisi, è più complessa. Nel 1938, dopo studi in matematica alla Sorbonne, abbandonati per l’Ecole des Beaux-Arts, a sua volta lasciata a favore di una formazione presso gli studi di diversi artisti, tra i quali Fernand Léger, il primo a dirle chiaramente che avrebbe dovuto mettere da parte la pittura per diventare scultrice, la giovane artista sposa Robert Goldwater, un americano insegnante di storia dell’arte e con lui parte per New York.
Un’ottima occasione, tra l’altro, per lasciare (pur con i sensi di colpa del caso) un padre autoritario che tradisce la moglie con Sadie, la ragazza alla pari assunta per insegnare l’inglese ai figli, una madre che porta i segni dell’epidemia di influenza spagnola, una sorella e un fratello. L’infanzia e l’adolescenza trascorrono con la netta impressione di essere tutto sommato un essere inutile e non funzionale all’economia familiare, un’intrusa che ha avuto la pessima idea di nascere nel giorno di Natale, un’indesiderata cui il padre aveva spiegato che gli artisti sono solo parassiti e altre piacevolezze. Nel 1994 dichiarerà: «La mia infanzia non ha mai perduto la sua magia e il suo mistero, non ha mai perduto la sua drammaticità. Tutto il mio lavoro degli ultimi cinquant’anni, tutti i miei soggetti sono ispirati dalla mia infanzia».
Quando arriva a New York, la scena artistica è dominata dal tardo Surrealismo. Sono in città due altri padri-padroni: «C’erano André Breton e Marcel Duchamp». E no, «non erano interessati alle donne. Erano interessati alle donne ricche, questo sì. Non erano interessati ad altri artisti. Erano interessati soprattutto a se stessi». Nonostante il machismo imperante negli ambienti espressionisti-astratti, firma con gli «Irascibili» la lettera aperta, scritta nel 1950, al presidente del Metropolitan Museum of Art, per «chiamarsi fuori» dalla mostra «American Painting Today».
Tra i suoi primi autorevoli sostenitori a New York non poteva mancare Alfred Barr, l’«inventore» del MoMA. Louise fa la scultrice. Nel ‘50 espone alla Peridot Gallery sculture totemiche in linea con il gusto surrealista, «adorabili figure a forma di fusto», come le descriverà anni dopo Lucy Lippard. Ombre tradotte in scultura, forse le ombre lunghe dei familiari rimasti in Francia. Così come ha sempre tenuto un diario, allo stesso modo Bourgeois ha sempre disegnato e prodotto incisioni e litografie.
L’antica definizione del disegno come padre di tutte le arti implica una conseguenza: il disegno è spesso rivelatore della personalità (come si dice lo sia la grafia per qualsiasi persona) o del talento dell’autore. È sicuramente così per Jonathan Jones, il critico di «The Guardian», che in occasione di una mostra allestita alla Tate Modern nel 2014 e dedicata appunto alla sua attività grafica ha scritto: «Louise Bourgeois, a quanto pare, non è tanto una surrealista quanto una simbolista. Invece di aprire la sua creatività a un inconscio imprevedibile, offre icone di emozioni già pronte e preconcette. Emoticons estetizzate. Il suo stile è cartoonistico, non ingenuamente, ma in modo newyorkese. Una donna nella vasca da bagno, una donna a spirale: sono disegnate come illustrazioni per un libro di grande gusto. Dov’è il pericolo, dov’è lo shock del nuovo, nell’arte di Louise Bourgeois? Negli anni Quaranta ha iniziato ad aggiungere alle sue incisioni enigmatiche narrazioni scritte, che all’epoca avevano pochi estimatori. Il mito che si è creato 50 anni dopo è che l’artista sia stata ingiustamente ignorata rispetto agli espressionisti astratti maschi suoi contemporanei a New York. Eppure basta confrontare le sue prime stampe con i dipinti di Mark Rothko alla Tate Modern per capire perché quest’ultimo abbia ricevuto più attenzione. Non è assolutamente una questione di genere. Di quell’epoca, Lee Krasner, Helen Frankenthaler e Joan Mitchell, che dipingevano tutte in stile espressionista astratto, sono artiste molto più interessanti».
Come scultrice, in quel periodo, ebbe meno agguerrite concorrenti, se si esclude Louise Nevelson. E quando si affacciò prepotentemente la generazione minimalista una sorta di se non positiva sicuramente utile «regressione» tematica e un solido ancoraggio al biomorfismo di matrice surrealista si rivelarono provvidenziali per la l’attuale altissima reputazione.
Il Guggenheim è fallico
È nei primi anni Sessanta che fanno la loro apparizione le prime sculture esplicitamente falliche, come «Labyrinthe Tower», che da un punto di vista «architettonico» ha qualche somiglianza con il Guggenheim Museum di Wright (capovolto) o con la celebre torre di Tatlin. Nei laboratori di Carrara e di Pietrasanta si dà al marmo. «Sleep II» (1967) è un modo di tornire un glande con una buona dose di tenerezza, quasi tentando un’analogia formale con le molte mammelle che appaiono nello stesso periodo nella sua produzione.
L’autorevole voce critica di William Rubin descrive gli addensamenti di mammelle e cazzetti sapientemente levigati per lei dagli operai carrarini come «raggruppamenti sociali, paesaggi microbiologici e città collinari». Il lattice è l’altro materiale prediletto, con il quale, insieme al gesso, dà forma a «Fillette», il fallo corredato di testicoli con il quale, nel 1982, apparirà nella celebre fotografia scattata da Robert Mapplethorpe.
«In parte sono protettiva verso il fallo, perché nella mia famiglia c’erano quattro uomini, dichiara. La mia funzione era dunque quella di rabbonirli». Il ritratto dedicatole da Mapplethorpe ha molto contribuito alla popolarità di Bourgeois: «Avevo portato con me quell’opera perché c’è più di me in quell’opera che non nella mia persona… Comunque non è un fallo. “Fillette” significa une petite fille (…) Si potrebbe dire che mi ero portata una piccola Louise… Mi rassicurava».
Prima delle «Cells», le gabbie in cui allestisce le sue «stanze scultoree», oltre a «Fillette», ovvero «blandisci il fallo prima che lui blandisca te», la sua opera più celebre è il passo successivo all’operazione di «maternalizzazione del fallo». Si tratta di «Distruzione del padre» (da cui prende il titolo la raccolta di scritti e interviste pubblicata nel 2009 da Quodlibet) una sorta di ritratto di famiglia in un antro cavernoso in cui concrescono, ovuli, tumori o mammelle, forme tondeggianti. La espone al 112 Greene Street Workshop, uno spazio autogestito da artisti. La vede Richard Serra, un po’ turbato, un po’ in difficoltà: «Il significato mi sfugge…».
Ci pensa Louise a fornire la glossa: «Si tratta essenzialmente di una tavola, l’orrida, terrificante cena capeggiata dal padre che si siede e gode. E gli altri, la madre e i figli, cosa possono fare? Siedono in silenzio. La madre ovviamente cerca di soddisfare il tiranno, suo marito. (…) Per l’esasperazione afferravamo il padre, lo sbattevamo sul tavolo, lo facevamo a pezzi e cominciavamo a mangiarlo». Dal mix tra psicanalisi, mitologia e tragedia greca nasce dunque il mito di Louise Bourgeois, quello consegnato all’attualità.
Prima, però, Louise trova il modo di estendere quelle bulbose sculture all’atto performativo, indossandole o facendole indossare in «Banquet/A Fashion Show of Body Parts», messa in scena alla Hamilton Gallery di New York nel 1978. A 67 anni è riuscita a mantenere lo status di artista non allineata a minimalismi o concettualismi di sorta ed ha acquisito il fascino di una veterana che è sopravvissuta ai feroci maschi della New York School espressionista astratta, tutte cose che le consentono di far sfilare con quei costumi ispirati alla «polymastòs» Diana di Efeso austeri accademici e alcuni entusiasti studenti d’arte.
Case, celle e aracnofilia
Louise, come si dice, ha svoltato. Cinque anni dopo il MoMA le dedica una retrospettiva. Il resto del mondo la consacra con un po’ di ritardo. Una data indicativa potrebbe essere il 1992, quando partecipa a documenta a Kassel, dove espone «Precious liquids»: si entrava in un ambiente cilindrico in legno dove alcune ampolle appese avrebbero dovuto contenere «il sudore, le lacrime, il moccio, la saliva, il cerume, la bile, l’urina, il latte, il pus, lo sperma e il sangue, spiega l’autrice. “Precious Liquids” tratta di una ragazza che crescendo prova passione anziché terrore». C’erano anche abiti: «Il vestitino che si rifugia nel grande cappotto rappresenta la bambina che è passata attraverso emozioni forti e spaventose».
L’opera è collocata in un ambiente chiuso, è una cella aperta. Le «Cell» sono un modo, chiarisce l’artista, per «creare la mia architettura e non dipendere dallo spazio museale adattando a questo le dimensioni del mio lavoro. Ognuna di esse rappresenta un mondo chiuso». A volte sono come prigioni perché «sono prigioniera dei miei ricordi. Sono stata prigioniera dei miei ricordi e me ne sono sbarazzata». C’è qualcosa, nelle «Cell», delle gabbie in cui Francis Bacon (che la adorava e la considerava «un collega scultore») rinchiudeva i suoi pontefici urlanti. Ma sono anche un’evoluzione, o un’alternativa, del tema della «Donna-casa» affrontato anni prima in disegni e sculture.
«La Cella, spiega Scott Lyon-Wall nel catalogo della mostra “Louise Bourgeois per Capodimonte” (2008-2009), è il suo “metodo dei loci” che permette di rivivere l’esperienza del passato, consentendole di distinguere i fatti dai ricordi vividi quanto falsi, e guidandola nella comprensione del sé». Una sorta di trasposizione delle «Porte del sogno» che si parano di fronte a Enea all’uscita dall’Ade. Le «Cell» ospitano vari reperti: spesso specchi, una ghigliottina, pupazzi appesi, sedie sospese, tessuti, pelli, oggetti di recupero, insomma un buon campionario di quelle cose che stanno bene in un «microcosmo psichico» (come sono state definite in occasione di una retrospettiva la Guggenheim di Bilbao nel 2016).
Oggetti e simbologie sempre più espliciti, come l’ultima, ossessiva icona, quella della mamma ragno gigantesca che depone uova (ma lo fa anche la mostruosa madre extraterrestre con cui se la deve vedere Sigourney Weaver nella saga cinematografica «Alien»): una di quelle opere monumentali, nel 2020, è stata collocata nella Turbine Hall della Tate Modern in occasione del ventesimo anniversario della «Unilever Series», il ciclo di opere concepite per la ciclopica Turbine Hall e inaugurato dalla stessa Bourgeois. L’anno prima, nel 1999, la Biennale di Venezia le aveva conferito il Leone d’oro alla carriera.
La lunga gittata di temi evergreen come la femminilità violata, i conflitti familiari, il sesso e il revival surrealista al femminile produttore di «Latte dei sogni» (vedi la Biennale da poco conclusa, dove peraltro la grande assente era proprio lei), l’influenza su schiere di artiste più o meno celebri, da Sissi a Tracey Emin, ha consentito a Louise Bourgeois di superare di varie lunghezze una collega come Georgia O’Keeffe nel ruolo di artista-donna-icona del XX secolo, anche se rimane l’insidia di Frida Kahlo. È morta nel 2010, venerata e coperta di gloria e di incondizionata venerazione.
La Bourgeois épatant
A parlarne in termini meno che elogiativi si rischia di fare figuracce. Lo lasciamo fare allo scomparso Charlie Finch di «Artnet»: «Si distingueva per le sue battute sprezzanti, per le strizzate d’occhio a tutti e per la sua civetteria accattivante. Questo prima che emergesse l’ottuso culto di Louise, con i suoi salotti a Manhattan, l’unzione degli artisti e dei curatori scelti intorno a lei e la celebrazione generale di tutto ciò che lei e il suo studio producevano. Sebbene non sapesse disegnare degnamente e avesse fabbricato un bizzarro mito autocommiserativo sulla sua famiglia borghese in Francia, condito da luride allusioni freudiane su suo padre e da accenni ironicamente sinistri su vari tipi di tate della sua famiglia, la resistenza fisica e l’allegria generale della Bourgeois continuarono fino ai novant’anni. Tipica del monumentalismo inutile per cui i suoi cultori la adoravano è stata l’installazione del 2001 di ragni giganti al 30 Rockefeller Plaza di New York, che sembrava un gruppo di stabiles di Calder lasciati nella centrifuga di una lavatrice gigantesca per qualche giro in più. Il MoMA era particolarmente abile nel selezionare gli occasionali colpi di genio che potevano interrompere la catena di mediocrità di Louise, ma il resto?».
Finch, beninteso, riconosce alla sua vittima di turno alcune qualità, ad esempio l’influenza esercitata su più generazioni. Ma anche lui cade in quella sorta di lapsus per cui sembra che un’artista donna possa essere stata influente soltanto su altre donne. Eppure lei diceva: «Quando nel 1940 realizzai “Femme Maison”, un corpo metà donna e metà casa, si disse che quest’opera era un esempio di arte fatta da una donna. Ma mi dispiace, io non so che cosa sia l’arte fatta dalle donne. Non esiste un’esperienza femminile nell’arte, perché non è solo essendo una donna che una persona vive un’esperienza diversa: gli individui sono diversi, uomini e donne, ma non la natura umana».
Al massimo si è riconosciuta una sua influenza sulle opere di artisti gay, come Robert Gober: un’interpretazione tanto idiota quanto ridicola, al di là del fatto che Gober, da ragazzo, amasse costruire case di bambola. Ma Franz West, senza essere gay, con i suoi «Passstücke», le sue sculture indossabili, le sue costruzioni falliche e fecali, è uno dei possibili discendenti della matriarca francoamericana. Così come Mike Kelley, Paul McCarthy, John Bock. È vero, come dice Finch, che Bourgeois e le sue quotazioni sono state portate alle stelle dalla «marea montante del conformismo del mondo dell’arte» che la adorava e ne è tuttora invaghito. «Non era un’artista, conclude Finch, ma era molto divertente». Il che, visti i tempi e gli artisti di tutti i tempi, sarebbe già moltissimo. All’altra matriarca americana non è riuscito neanche questo: uno sbadigliante Valerio Magrelli l’ha ribattezzata Georgia O’Kitsch.
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