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«La città che sale» (1910-11) di Umberto Boccioni, New York, MoMA

Foto tratta da Wikipedia

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«La città che sale» (1910-11) di Umberto Boccioni, New York, MoMA

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Noi italiani siamo o non siamo futuristi?

La grande mostra sul movimento artistico voluta dall’ex ministro Sangiuliano in realtà arriva dopo settant’anni di studi specialistici sull’argomento. Ma l’Italia non è futurista

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Flaminio Gualdoni

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Ma alla fine, l’Italia è un Paese futurista? A uno sguardo a volo d’uccello, a me sembra che somigli più a un’invenzione dadaista sgangherata: e in ogni caso ben al di sotto di qualsiasi possibilità di costruirvi sopra un ragionamento che non sia, come oggi è consuetudine, da bar o da rissa televisiva. Il fu ministro Sangiuliano ha imposto alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna una grande mostra celebrativa del Futurismo per rivendicare alla sua parte politica un fondamento identitario forte, almeno un quartino di nobiltà che, secondo lui, era stato nascosto dal primato occhiuto dei «comunisti» che reggevano le sorti della storia dell’arte.

Ma non era, questa, una narrazione fuorviante: era proprio ignorante. Per almeno due motivi. 

Il primo è che grandi studi sul Futurismo si son fatti da sempre, e al massimo livello. Per dire, il primo volume degli Archivi del Futurismo è del 1958, e Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista. Manifesti, scritti politici, romanzi, parole in libertà uscì da Mondadori nel 1968. Il mito della macchina e altri temi del Futurismo fu pubblicato da Enrico Crispolti nel 1971, Ricostruzione futurista dell’universo, ancora Crispolti, uscì a Torino nel 1980, ed era un malloppo di ben 624 pagine. Poi fu la volta di Storia e critica del Futurismo edito da Laterza, 1986: e stiamo parlando del solo Crispolti. E intanto erano al lavoro anche Maurizio Calvesi, Giovanni Lista, Mario Verdone, Claudia Salaris, Ada Masoero eccetera eccetera, in un flusso editoriale e di mostre continuo e debordante.

Poi arriva un omino Michelin vestito da ministro e decide, ignaro di tutto ciò, che, bontà sua, è finalmente giunto il momento di far scoprire agli italiani il Futurismo. 

E veniamo al secondo motivo per cui trattasi di ignoranza. Improvvisatosi regista della cosa (confesso che rimpiango il tempo in cui il ministro doveva occuparsi di beni culturali e non di «cultura» tout court), l’omino convoca non chi più conosce la materia, e magari sa come si fa una mostra, ma chi è di «provata fede» postfuturista, in base a che cosa non si sa: cioè le persone politicamente più spendibili. Non mi pare che questa sia una prova del «noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro» di cui diceva il Manifesto dei pittori futuristi, febbraio 1910. Forse perché, per dire, tutta la grande stagione del Futurismo si è svolta prima che nascesse il fascismo e l’esponente principale del movimento, Umberto Boccioni, morì nel 1916.

Il futuro in seguito non è stato affatto magnificente. Anzi, si è diluito sino a divenire il pastrocchio provinciale che ci spacciano ora. Il Futurismo è stato un fenomeno troppo importante, cruciale per tutta la cultura europea. Ma, se aveva ragione Antonio Gramsci, santino forse troppo affrettatamente aggiunto nella bacheca dei nuovi reggitori dell’Italia, bisognava studiare, anche se studiare «è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza»: non basta il marketing che tutto riduce a slogan confortevoli. 

Per conto mio, ero convinto che ormai le «cazzarolette» (così l’allora giovane sottosegretario Giulio Andreotti definiva le pudiche foglie di fico aggiunte nel dopoguerra ai nudi atletici che decorano lo Stadio dei Marmi al Foro Italico, voluto da Mussolini a celebrazione dei fasti fisici degli «Italiani nuovi») fossero passate di moda. Ma siamo sempre lì: se non facciamo incazzare il parroco e il carabiniere, tutto il resto si aggiusta. La risposta forse è proprio questa. Gli Italiani non sono nuovi e l’Italia non è futurista. È un Paese di fabbricanti di cazzarolette.

Flaminio Gualdoni, 26 novembre 2024 | © Riproduzione riservata

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