Francesco Bandarin
Leggi i suoi articoliAlla metà di agosto, i talebani hanno completamente riconquistato l’Afghanistan, prima ancora che l’esercito americano e i contingenti inviati dalla Nato completassero l’evacuazione del personale militare e civile, chiudendo dopo vent’anni una campagna militare che, se è forse servita a distruggere le basi terroristiche che minacciavano l’Occidente, non è riuscita a sconfiggere i gruppi islamisti che governavano il Paese nel 2001, all’epoca dell’intervento ordinato dal presidente George W. Bush dopo l’attacco alle torri gemelle di New York.
Durante questo ventennio, i talebani, pur in ritirata dalle grandi città, sono sempre rimasti attivi e presenti in quasi tutti i distretti del Paese, controllando i vasti territori rurali dove viene coltivata la maggiore quantità di oppio del mondo, da lì diffuso in tutta l’Asia, l’Europa e l’America. Essi sono stati inoltre in grado di condurre numerosi attacchi sia contro le truppe occidentali schierate sul terreno (oltre 3mila soldati e 4mila «consiglieri» hanno perso la vita) sia all’interno delle città.
Con la decisione degli americani di chiudere (dopo uno sciagurato negoziato diretto con i talebani, da cui è stato escluso il Governo in carica) una delle campagne militari più lunghe della loro storia, la difesa delle parti del Paese ancora sotto controllo di un Governo debole, diviso e corrotto è stata lasciata a un esercito di gran lunga meno motivato dei talebani a sacrificarsi per un’ideologia o un ideale. In meno di venti giorni, intere regioni e le principali capitali regionali sono cadute nelle mani dei talebani, fino alla presa finale di Kabul il 15 agosto, con conseguenze gravissime per l’organizzazione della vita sociale, i diritti umani e l’economia.
La nuova generazione dei taliban è espressione di diverse correnti, e se una componente moderata esiste, e cerca di rassicurare la comunità internazionale sulle sue intenzioni, altre, più radicali e con le armi in pugno, cercano invece di ristabilire quel regime brutale e oppressivo che fu debellato nel 2002 dall’intervento americano.
In questa situazione, anche lo straordinario patrimonio culturale dell’Afghanistan corre gravissimi rischi, per la possibilità di attacchi e distruzioni e per il possibile collasso delle strutture gestionali faticosamente messe in piedi per la conservazione e la tutela dei monumenti. La memoria della criminale distruzione delle statue colossali dei Buddha di Bamyan, operata dai talebani nel marzo del 2001, è ancora vivissima in tutto il mondo, come esempio massimo di barbarie esercitata contro il patrimonio culturale.
Non sappiamo ancora quale sarà l’atteggiamento dei talebani nei riguardi del patrimonio afghano, e nemmeno se le numerose iniziative internazionali avviate nel Paese per la sua conservazione potranno avere seguito. Sappiamo però che negli ultimi venti anni l’attività di conservazione del patrimonio afghano ha vissuto una vera e propria rinascita, sostenuta da centinaia di importanti interventi di restauro, ricostruzione e tutela, che hanno visto come protagonista lo stesso popolo afghano, in moltissimi casi attore diretto e consapevole dell’opera di rinascita culturale.
Vastissimo, e ancora in parte sconosciuto, è il patrimonio culturale dell’Afghanistan. A partire dai regni dei Medi e dei Persiani nell’antichità, passando nel corso dei millenni dal dominio dei Greci dopo le conquiste di Alessandro Magno a quello dei Sassanidi, degli Abassidi, dei Ghaznavidi, dei Ghuridi, dei Mongoli, dei Timuridi, dei Moghul, dei Durrani, per giungere alla stagione degli interventi dei russi e degli inglesi nel XIX secolo, alla formazione di un regno durato fino al 1973, e infine al lunghissimo conflitto contemporaneo iniziato nel 1979, in Afghanistan si sono incrociate per millenni etnie, religioni e culture che hanno lasciato testimonianze di grande rilievo.
Dei moltissimi esistenti, solo due siti sono per ora iscritti nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Il primo (2002) è stato il sito del Minareto di Jam, ubicato nella scoscesa valle del fiume Hari-Rud, ad oltre 200 chilometri ad est di Herat, in una zona isolata a quasi 2.000 metri sul livello del mare. Questo straordinario monumento, una vera e propria «torre della vittoria», venne realizzato nel 1194 dal sultano ghuride Ghiyas-od-din (1153-1203) per commemorare la conquista dell’impero.
Il minareto, che rimane tutt’oggi una delle costruzioni in mattoni più alte del mondo, ha un’altezza di 65 metri e una base ottagonale di 9 metri di diametro ed è completamente rivestito di iscrizioni coraniche. La conservazione del monumento ha sempre presentato notevoli difficoltà, sia per la lontananza dalle città, sia per la difficoltà legate al regime torrentizio dei fiumi che si trovano alla sua base, che ne hanno spesso minacciato la stabilità. L’Unesco ha condotto nel corso degli ultimi cinquant’anni numerose campagne di salvaguardia del Minareto (condotte anche dall’architetto italiano Andrea Bruno), e ultimamente la Fondazione Aliph ha erogato all’Unesco un fondo di due milioni di dollari per avviare una campagna di salvaguardia del monumento e degli importanti resti archeologici della zona.
Il secondo sito a essere iscritto nella lista del Patrimonio mondiale (2003) è stato il Paesaggio Culturale e l’archeologia della Valle di Bamyan, gravemente colpito dalle distruzioni dei talebani. Nonostante la perdita dei grandi Buddha, infatti, questo sito rimane la principale testimonianza di più di un millennio di storia (I-XIII secolo) della Battriana, nel corso del quale l’integrazione di diverse influenze culturali (soprattutto greca e indiana) ha dato vita all’eccezionale cultura artistica del Ghandara, di cui i due grandi Buddha (alti rispettivamente 55 e 38 metri) erano la più importante espressione.
Il sito, che costituiva una delle principali tappe della Via della Seta e testimonia quindi anche la migrazione del buddhismo dall’India verso la Cina, è caratterizzato da valli con alte pareti verticali, lungo le quali, dal III al V secolo, venne realizzato dai monaci buddhisti un gran numero di monasteri, cappelle e celle monastiche, spesso connesse da gallerie, dove si trovano dipinti murali e statue del Buddha.
L’importanza del sito ha spinto molti Paesi a offrire sostegno all’opera di restauro e conservazione. L’Italia e il Giappone, in particolare, hanno promosso, in collaborazione con l’Unesco, una serie di importanti programmi, tuttora in corso, di consolidamento delle nicchie dei Buddha, di sviluppo delle capacità tecniche e gestionali e di promozione della qualità della vita delle comunità locali della valle di Bamyan. Anche la Corea del Sud si è impegnata a Bamyan, con il finanziamento della costruzione di un centro culturale, di cui era prevista l’inaugurazione entro il 2021.
Oltre a questi due siti, ve ne sono altri quattro nella «tentative list» del Patrimonio mondiale: Bagh-e Babur, il giardino di Babur a Kabul, l’unico giardino di epoca timuride giunto sino a noi, magnificamente restaurato dall’Aga Khan Trust for Culture nell’ultimo decennio; la città storica di Herat, una delle più importanti capitali dei regni abbasidi, poi completamente ristrutturata durante la dinastia timuride nel XV secolo, ricchissima di monumenti tra cui la famosa Cittadella, il complesso del Musalla con il mausoleo di Gawharshad, il mausoleo di Khwaja Abdulla Ansari a Gozargah e la Moschea del Venerdì di epoca Ghuride; la città di Balkh nella regione di Mazar-i Sharif, l’antica Bactria, centro della spiritualità zoroastriana, poi del buddhismo e infine importante centro politico e culturale durante la dominazione araba, patria del grande filosofo Avicenna (980-1037 ) e del poeta Firdusi.
All’interno delle rovine delle sue mura si trovano ancora importanti monumenti come il santuario timuride di Khwaja Abu Nasr Parsa del 1460 e la madrasa di Sayyid Sudhan Quli Khan del XVII secolo. All’esterno, il grande monastero buddista di Nau Bahar e la sua stupa di Tepe Rustam, oltre alla grande moschea di Noh Gunbad, anche chiamata di Haji Piyada, risalente all’epoca dell’Impero samanide (819-1005), probabilmente la più antica dell’Asia Centrale, restaurata negli ultimi anni dalla dall’Aga Khan Trust for Culture, in collaborazione con la Dafa francese, il World Monuments Fund e l’Associazione Giovanni Secco Suardo (Agss). Anche un importante sito naturale, Band-e Amir, si trova nella «tentative list» dell’Afghanistan. Si tratta di un parco nazionale nella provincia di Bamyan, nella catena dell’Hindu Kush, caratterizzato da spettacolari formazioni geologiche e da una serie di laghi, famosi per il loro colore blu intenso.
Innumerevoli sono stati in Afghanistan, negli ultimi venti anni, gli interventi di restauro e conservazione del patrimonio, sostenuti da moltissimi progetti internazionali, al punto che oggi si è sviluppata una forte capacità tecnica locale, sostenuta da programmi di formazione che hanno visto anche l’Italia in prima fila, con l’azione dell’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro. Nell’insieme, probabilmente il contributo più importante alla conservazione del patrimonio culturale afghano è stato offerto dall’Aga Khan Trust for Culture, che ha condotto un programma intensissimo di restauro dei beni culturali (sono oltre 200 gli interventi realizzati), sempre associando al suo intervento un’importante azione di sviluppo sociale e economico delle comunità locali.
Inoltre, in questi vent’anni, sono stati restaurati molti musei, che costituiscono l’embrione di una infrastruttura culturale nazionale. Il più importante di essi, il Museo Nazionale di Kabul, venne completamente distrutto durante i vent’anni di guerra che precedettero l’arrivo delle forze militari internazionali guidate dagli americani. Ma le sue importanti collezioni, per fortuna, sopravvissero grazie a un’iniziativa condotta, a rischio della vita, dai dirigenti del museo, che nascosero le opere in luoghi che i talebani non furono in grado di scoprire.
Anche il patrimonio immateriale ha ricevuto una crescente attenzione da parte del Governo ora deposto, con l’iscrizione nella Lista del patrimonio immateriale dell’Unesco di un elemento comune a tutti i Paesi della regione, la festa di primavera del Nawruz, e la proposta, per il 2022, di alcuni nuovi elementi: lo stile delle miniature Behzad, la danza nazionale Atan e il rubab afghano, il principale strumento musicale della tradizione locale. Molti progetti di protezione e valorizzazione del patrimonio immateriale sono inoltre stati avviati in collaborazione con i Paesi vicini, nell’ambito di un programma sulla cultura della Via della Seta (2018-21) finanziato dalla Unione Europea, in collaborazione con l’Unesco.
In queste drammatiche settimane, il mondo della cultura si domanda con apprensione che cosa succederà del patrimonio afghano adesso che i talebani sono tornati al potere. Non è difficile ipotizzare che ci possano essere gravi conseguenze sulle capacità di controllo e conservazione degli importanti siti archeologici del Paese. Si è visto, negli ultimi trent’anni, come le guerre in Medio Oriente e in Asia Centrale abbiano prodotto effetti devastanti sul patrimonio, dai danni provocati dall’occupazione di aree archeologiche da parte di gruppi armati, fino alle distruzioni deliberate, ai saccheggi e agli scavi illeciti alla ricerca di tesori archeologici.
Inoltre, una situazione di tensione politica internazionale non potrebbe che portare all’arresto di molti dei programmi nazionali e internazionali di conservazione e alla dispersione delle capacità tecniche accumulate in questi anni. Se poi le fazioni più estremiste dei talebani dovessero controllare il Governo, potrebbero anche ripetersi gli episodi di criminale distruzione dei beni culturali che tutti ricordano. È quindi necessario che i Paesi e le organizzazioni che collaborano alla conservazione del patrimonio afghano diano avvio con urgenza a iniziative mirate a promuovere la protezione dei beni mobili e dei siti, garantendo anche la continuità delle capacità gestionali. Sarà questa un grande test sull’efficacia della strumentazione di intervento sviluppata negli ultimi anni in ambito internazionale per la protezione del patrimonio in situazioni di conflitto.
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