Luana De Micco
Leggi i suoi articoliBertrand Guillet è il direttore del Musée d’Histoire de Nantes, che si trova all’interno del Castello dei duchi di Bretagna. Un anno fa ha preso la decisione di rinviare la mostra su Gengis Khan e l’impero mongolo che stava organizzando con il Museo della Mongolia interna, a Hohhot, in Cina. Il motivo? L’intrusione dell’Ufficio dei beni culturali di Pechino che, a pochi mesi dall’apertura, prevista a inizio 2021, aveva tentato di censurare dei testi e di riscrivere la storia del celebre condottiero mongolo, che conquistò l’Asia centrale nel primo XIII secolo. Guillet non ha ceduto alla censura.
A un anno di distanza, la vicenda del Museo Santa Giulia di Brescia, che ha subito le pressioni dell’Ambasciata cinese in Italia per impedire la mostra dell’artista cinese dissidente Badiucao (poi aperta il 13 novembre come previsto), ha raggiunto anche Nantes. «Quello che è successo a Brescia si inscrive nella continuità di ciò che abbiamo vissuto qui», commenta Guillet, al telefono da Nantes.
Quando ha annullato la mostra su Gengis Khan e la vicenda ha cominciato a fare il giro del mondo, Guillet è stato contattato dal Parlamento europeo e ascoltato in videoconferenza dalle Commissioni Cultura e Diritti umani: «Il Parlamento della Ue sta censendo le intrusioni della diplomazia cinese in Europa in diversi settori, tra cui il mondo della cultura. Ed era la prima volta che si verificava un’azione così aggressiva nei confronti di un museo fuori dalla frontiera cinese. Finora, spiega Guillet, le ingerenze di Pechino in ambito culturale si erano verificate all’interno della Cina. Riguardavano per esempio mostre di artisti occidentali che il Governo non intende esporre o la scelta delle opere da inviare ai musei europei. Per il Parlamento Ue, con Nantes siamo entrati in una nuova fase».
La mostra su Gengis Khan si sarebbe dovuta tenere mentre Pechino aveva già messo in pratica una serie di misure per erodere la cultura della minoranza etnica mongola, a cominciare dall’insegnamento della lingua. «Per due anni, la collaborazione con il Museo della Mongolia interna è andata molto bene, racconta Guillet. È nel momento in cui sono state chieste le autorizzazioni per l’uscita delle opere dalla Cina, come da procedura per tutte le mostre internazionali, che il governo cinese ci ha chiesto, in un primo tempo, di far sparire dai testi alcune parole come “Gengis Khan”, “mongoli”, “impero”. Era surreale.
Poco dopo ci hanno inviato una controproposta di mostra, in cui si cancellava letteralmente l’esistenza dell’impero mongolo e si faceva intendere che i Mongoli erano stati solo un popolo di nomadi che aveva avuto la fortuna di integrarsi con la grande civiltà cinese. Deontologicamente per noi era inaccettabile. La Cina, continua Guillet, nell’ambito della sinizzazione della sua storia, non ha nessuna intenzione che si parli delle grandi dinastie straniere che, a un certo punto, hanno governato il paese. Politicamente deve essere stato molto complicato per il Museo della Mongolia interna. La collaborazione è stata rotta da un momento all’altro e da allora non abbiamo più notizie. Non sappiamo neanche se la sua équipe è ancora in carica».
La mostra non è stata annullata, ma solo rinviata ed è già riprogrammata per l’ottobre 2023: «Il nostro incidente ha provocato molte reazioni. Esperti di tutto il mondo stanno collaborando con noi. Il presidente della Repubblica della Mongolia, anche per presa di posizione diplomatica rispetto alla Cina, ha deciso di accompagnarci nel nostro progetto. Ho già incontrato la ministra della Cultura mongola, che è stata a Parigi a novembre. La maggior parte delle opere arriveranno dalle collezioni nazionali mongole».
Il rifiuto del museo francese di cedere alle pressioni di Pechino è stato visto come un gesto esemplare in tutto il mondo, mentre grandi musei internazionali, tra cui anche il Centre Pompidou di Parigi, continuano a collaborare con la Cina. Il 5 novembre 2019, il nuovo Centre Pompidou x West Bund Museum di Shanghai veniva inaugurato in presenza del presidente Macron. Per la mostra inaugurale, alcune opere erano state censurate, tra cui una della giovane artista cinese Cao Fei.
«Serviamo di più la democrazia evitando la Cina o essendo presenti, creando legami, permettendo l’accesso alla cultura occidentale? In Cina abbiamo uno spazio di libertà sufficiente per lavorare», spiegava all’epoca l’allora presidente del Pompidou, Serge Lasvignes. Una posizione molto criticata dall’artista dissidente cinese Ai Weiwei, che accusa di complicità le istituzioni culturali che, malgrado la scarsa attenzione in materia di diritti umani, continuano a collaborare con Pechino.
«Non condivido il punto di vista dei musei che giustificano la loro presenza in Cina dicendo che è per favorire l’apertura mentale. In questo senso sono d’accordo con Ai Weiwei. A Nantes abbiamo dei valori, ogni compromissione era inaccettabile, osserva Guillet. Quanto al Centre Pompidou, è un museo nazionale e agisce anche sotto l’egida del Governo francese, che ha i suoi interessi. Il che è deplorevole. Noi non avevamo alcun interesse e niente ci impediva di prendere quella decisione. I grandi musei, come il Louvre, assoggettati agli interessi della diplomazia francese, da sempre montano operazioni diplomatiche, organizzando grandi mostre o aprendo nuove sedi. Ma da parte della Cina arriviamo a eccessi preoccupanti. Un gesto da parte dei grandi musei avrebbe un impatto simbolico ancora più forte».
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