Luca Beatrice
Leggi i suoi articoliCi saranno rimasti male, quantomeno stupiti, i tanti convinti (e molti già riposizionati) che l’emanazione di un Governo di destra non abbia pensato a un direttore nazionale e nazionalista, espressione dell’autarchia e delle radici culturali localiste, un po’ come usava prima degli anni ’90 quando arrivò anche a Venezia la globalizzazione. E invece no. Dopo averci stupito con la nomina della giovane e talentuosa Caterina Barbieri alla Biennale Musica e aver condiviso la scelta di Carlo Ratti per la Biennale Architettura con il suo predecessore Roberto Cicutto, il presidente Pietrangelo Buttafuoco ha smentito tutti gli scommettitori (c’era chi puntava su Vincenzo de Bellis, chi su Carolyn Christov-Bakargiev, chi addirittura su Arturo Galansino o al limite su Hans Ulrich Obrist) e ha estratto dal cappello Koyo Kouoh, camerunense, attiva in Sudafrica e in Svizzera, a Basilea, dove si giocano tanti destini del mercato dell’arte.
Africana e soprattutto donna, apolide, sintesi tra le nuove istanze del Global South e quell’Europa continentale che comunque non passa mai di moda. Questa nomina, in linea con l’ultima direttrice di Architettura, Lesley Lokko, scozzese, ghanese e anche narratrice, ci dice, come ogni cosa che segue l’evoluzione e rispecchia lo «Zeitgeist» (lo spirito del tempo, Ndr), che la Biennale di Venezia non torna indietro ma percorre una strada sempre in avanti e oggi il mondo della cultura arriva prima della realtà, si muove per rimescolamenti, contaminazioni, incroci. Muri e steccati non ce ne sono più, il linguaggio è globale e nel contempo restano da studiare quelle identità forti di cui è ricco il pianeta.
La direzione di Koyo Kouoh viene diversi anni dopo Okwui Enwezor, ma sarà un’altra rappresentazione dell’Africa. Il compianto direttore di documenta 2002, una di quelle mostre epocali che hanno scritto la storia dell’arte all’ingresso del nuovo millennio, fu l’espressione dell’incrocio tra le proprie origini e l’ambiente progressista newyorkese obamiano in cui si era formato. Da Koyo (già a Venezia nel 2003 nella giuria internazionale voluta dall’allora curatore Francesco Bonami) ci si aspetta una visione che affermi la centralità dell’Africa nel sistema dell’arte, un continente sempre più presente nelle metropoli occidentali e che, a differenza dell’Estremo Oriente e in particolare della Cina, il cui effetto bolla si è già ridimensionato, appare come un fenomeno in costante crescita. E il risarcimento non c’entra, il postcolonialismo neppure, aspettiamo visioni nuove, inedite, ultracontemporanee e non per forza conflittuali con l’Occidente.
Ci vuole dell’altro, però, per ridare lo smalto dell’hic et nunc che Venezia ha sempre avuto, fin dalle sue lontane origini. Una mostra non si può giudicare solo dal numero di biglietti venduti (la Biennale, peraltro, è un brand, unico evento italiano del contemporaneo capace di attrarre un pubblico vasto, non solo di settore) e le ultime due sono andate benissimo. Cecilia Alemani e Adriano Pedrosa, però, hanno inscenato le edizioni più cimiteriali che si ricordino a memoria d’uomo, percentuale altissime di artisti deceduti e sguardo fisso sul Novecento. Mostre a tema, con tesi suggestive, ma lontane dallo spirito della Biennale cui si richiede, appunto, di catturare lo spirito del tempo. E invece la teoria, preconfezionata, ha scavalcato la pratica: bastava fossero femmine per Alemani, expat di ogni ordine e grado, meglio se in Sudamerica, per Pedrosa. Tutto ciò indipendentemente dagli esiti mentre è proprio la forma finale a distinguere e determinare il valore dell’arte. Da Koyo Kouoh ci aspettiamo il ritorno della centralità dell’opera: non conta dove sia stata prodotta ma che sia «bella» e soprattutto di oggi, non di un secolo fa.
E speriamo che la neodirettrice preveda un attento giro negli studi degli artisti italiani, che forse non conosce ma che nella sua Biennale dovranno esserci. Per darle una mano la inviterò alla Quadriennale (apertura prevista all’inizio di ottobre 2025) dove di artisti ce ne saranno 50, tutti vivi, quasi tutti giovani.
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