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Touria El Glaoui direttrice della fiera 1-54 che si volge in questi giorni a Marrakech

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Touria El Glaoui direttrice della fiera 1-54 che si volge in questi giorni a Marrakech

Touria El Glaoui racconta la sua 1-54

La fiera che promuove l’arte africana nel mondo, il suo rapporto con il territorio, gli artisti e le istituzioni del Continente, il re Muhammad VI collezionista e un inedito Winston Churchill «talent scout»: due chiacchiere con la direttrice franco-marocchina in esclusiva per Il Giornale dell’Arte 

Nicola Davide Angerame

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Se Winston Churchill non avesse convinto suo nonno, l’ultimo pascià di Marrakech, a far proseguire nell’arte suo padre, oggi non ci sarebbe la fiera 1-54, la prima piattaforma che promuove l’arte africana contemporanea nel mondo. Touria El Glaoui, padre berbero e madre francese, è cresciuta in Marocco ma ha girato l’Africa per lavoro. Nel 2011, volendo progettare una mostra del padre Hassan fuori dai confini nazionali, si rende conto delle difficoltà che devono affrontare gli artisti africani. Nasce così l’idea, condivisa con Koyo Kouoh la prossima curatrice della Biennale di Venezia, di una fiera dedicata a loro, ma inclusiva anche degli africani delle diaspore e dei discendenti, nel Regno Unito e negli Stati Uniti.

Il nome "1-54" si riferisce ai 54 paesi africani.
Esattamente, abbiamo scelto questo numero perché in Africa i numeri hanno un significato più universale rispetto alle lingue coloniali come il francese o l’inglese. Volevamo un titolo che fosse un riferimento chiaro all’Africa.

C’è una lingua comune in Africa?
Sì, nell'Africa francofona. Poi c'è l'Africa anglofona, come il Ghana, la Nigeria, il Sudafrica, la Namibia, dove si parla più inglese che francese. Dipende. Il Ruanda, ad esempio, ora parla inglese.

E po’ c’è l’arabo, come qui in Marocco, mentre da pochi anni anche il berbero è divenuta lingua ufficiale.
Siamo molto contenti di poter parlare tre lingue, è importante. Anche se alla fine ci si rifà comunque alle lingue coloniali, e anche se non sono necessariamente le più parlate nel continente permettono una comunicazione più ampia e facilitano l'integrazione nel mercato internazionale dell'arte.

Da quale idea è nata 1-54?
In realtà, sono la figlia di un pittore marocchino, Hassan El Glaoui, uno dei primi artisti figurativi moderni del Marocco, molto apprezzato. Sono cresciuta nell'ambiente artistico tuttavia la mia carriera professionale inizialmente era dentro una compagnia tecnologica, per la quale viaggiavo molto in Africa.

Quindi l’arte si è imposta poco alla volta?
Aiutavo mio padre a organizzare alcune esposizioni, ma solo come hobby. Con il tempo, mi sono resa conto di quanto fosse difficile per un artista, anche affermato, esporre a livello internazionale. C'erano problemi di visti e di trasporto delle opere tra l'Africa e l'Europa. Quando viaggiavo per lavoro, incontravo molti artisti in paesi come il Sudafrica o la Nigeria e tutti mi dicevano quanto fosse difficile emergere. I mercati locali erano poco sviluppati e il mercato internazionale era complesso da raggiungere.

Quindi hai capito che era necessario creare una piattaforma?
Esattamente. Per molti artisti africani, l'unica opzione era partire dall'Europa o dagli Stati Uniti per entrare nel mercato internazionale e poi tornare in Africa. Da qui è nata l'idea di creare una fiera.

Anche 1-54 ha fatto così...
Sì, abbiamo iniziato a Londra nel 2013, poi a New York nel 2015 e infine a Marrakech nel 2018.

Tre luoghi diversi tra loro.
Ogni edizione ha una propria identità. Londra è vicina all'Africa e attira molte gallerie africane, europee e americane. La storia coloniale del Regno Unito con l'Africa ha creato legami forti, e ci sono molte gallerie e artisti africani che vivono in Inghilterra.

E negli Stati Uniti?
Il mercato è uno dei più importanti al mondo e c'è una diaspora africana molto diversificata: afroamericani, afro-caraibici, discendenti africani che vivono in America. Lì abbiamo collezionisti afroamericani con un forte potere d'acquisto, interessati a collezionare arte di artisti di origine africana.

E Marrakech?
Ha un'identità più nordafricana. Ci sono molte gallerie marocchine, tunisine e algerine, che arricchiscono la fiera con una prospettiva diversa rispetto a Londra o New York, dove c'è una maggiore presenza dell'Africa occidentale e meridionale. Inoltre, le gallerie marocchine hanno iniziato a rappresentare anche artisti di altri paesi africani, come la Costa d'Avorio o il Ghana.

Anche il pubblico cambia da una fiera all’altra?
Sì, moltissimo. A Londra e New York abbiamo un pubblico internazionale. A Marrakech ci sono più collezionisti marocchini e nordafricani, ma anche molti africani subsahariani. Un elemento chiave è che il re del Marocco colleziona arte africana e ha dato un impulso al collezionismo nel paese.

Il re Muhammad VI sta ulteriormente modernizzando il Marocco: visita la fiera, cosa gli interessa di più, l’arte tradizionale o anche quella contemporanea?
Mi piacerebbe che la visitasse, ma ha persone che lavorano per lui e che visitano la fiera e gli riferiscono tutto. Non posso parlare a suo nome, ma ha una collezione africana molto importante e qualche anno fa è stata esposte in un museo nazionale.

Il Marocco sta assumendo un ruolo sempre più centrale in Africa?
Sì, il re ha lavorato molto per rafforzare i legami economici con l'Africa investendo in vari settori, dalle banche alle infrastrutture. Questo si riflette anche nella collezione reale, che mostra il suo interesse per il continente.

In tempi di decolonizzazione e woke culture, cosa significa essere un artista africano oggi?
Un artista, prima di tutto, si sente artista. Poi viene il suo paese e, infine, il continente africano.

Te lo chiedo perché la Biennale di Pedrosa ha invitato gli artisti del Sud del mondo, molti dei quali erano sconosciuti al pubblico occidentale.
Sì, c'erano artisti autodidatti, ma anche artisti con formazione accademica che avevano studiato in Europa. Questo solleva la questione della diaspora e dell'identità. Alcuni artisti marocchini hanno studiato a Parigi, ma hanno sempre vissuto in Marocco. Non si tratta di diaspora, ma di un percorso formativo. Negli anni '60, molti artisti africani studiavano all'estero. Poi, con l'indipendenza (1956 n.d.r.), sono nati movimenti locali, come il Movimento di Casablanca in Marocco, che ha sviluppato una scena artistica autonoma. Tuttavia, per lungo tempo gli artisti africani non hanno avuto visibilità internazionale.

Per questo hai creato 1-54, per offrire loro una piattaforma globale.
Quando ho iniziato, tra il 2011 e il 2013, c'erano poche esposizioni dedicate all'arte contemporanea africana. La prima mostra con artisti africani e internazionali risale solo al 1989, con "Magiciens de la Terre". All'epoca si organizzava un'esposizione sull'Africa ogni cinque anni. Ho dovuto studiare molto per individuare artisti e gallerie del continente.

Da allora molti passi sono stati fatti: quali aspettative nutri sulla prossima Biennale di Venezia diretta da Koyo Kouoh?
La conosco bene, ha lavorato con 1-54 per sei anni e ha un grande talento. Non considera l'Africa come una realtà separata, ma parte integrante della scena artistica globale. Sarà la prima curatrice africana alla Biennale, un evento storico. Ha un gusto impeccabile e sono convinta che il suo approccio sarà innovativo e inclusivo.

Quali caratteristiche ha l’arte contemporanea africana?
È estremamente variegata. A Marrakech presentiamo dieci gallerie marocchine con artisti moderni e contemporanei. Non c'è un unico stile distintivo, ma una grande diversità espressiva: fotografia, pittura, performance, installazioni. La fotografia africana, in particolare, sta vivendo una rinascita con talenti ispirati alle grandi figure del passato.

Ci sono istituzioni che supportano gli artisti in Africa?
Sì, ci sono spazi indipendenti e istituzioni come l'Institut Français e il Goethe-Institut che sostengono gli artisti, soprattutto quelli meno commerciali. Alcuni paesi africani stanno investendo nella cultura, come il Benin e il Rwanda, che puntano su arte e turismo culturale. Tuttavia, in molti stati le priorità restano istruzione e salute.

Qual è l’affluenza alla fiera?
A Marrakech accogliamo circa 3.000 visitatori, di cui 200-300 collezionisti attivi. Con 30 gallerie presenti, la fiera offre un'ottima opportunità per connettere artisti e acquirenti in un contesto raccolto ma dinamico.

Come vedi il dibattito sulla decolonizzazione nell’arte?
La decolonizzazione è fondamentale, ma alcune eredità possono essere positive. Le lingue coloniali, ad esempio, sono strumenti di comunicazione essenziali. Anche l'istituzione di scuole d'arte, come quella di Tétouan a Casablanca, hanno lasciato un segno positivo. Oggi sono gestite localmente, ma restano un'eredità preziosa.

Quei cavalieri dipinti da vostro padre, sono cavalieri berberi?
Sì, mio padre Hassan viene da una tribù di cui mio nonno Thami El Glaoui era il capo. Contava migliaia di persone. Mio nonno è stato anche il pascià di Marrakech dal 1912 al 1956, e prima era stato un guerriero berbero. Ma questa è un'altra saga.

Per favore, continua.
Mio padre è stato molto segnato dalle uscite di suo padre a cavallo, quando andava in guerra. Sono storie difficili da immaginare, ora. Quando Winston Churchill, che frequentava l'hotel Mamounia e Marrakech per motivi di salute, vide i quadri di mio padre appesi nell'ufficio di mio nonno ne apprezzò il talento e gli consigliò di farlo proseguire. Anche Churchill dipingeva, e pochi anni fa ho curato a Londra una mostra di suoi dipinti a confronto con quelli di mio padre. Con grande soddisfazione e gratitudine.

Nicola Davide Angerame, 31 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

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