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Tutto parte dall’analisi dei rischi

Veronica Rodenigo

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Daniele Jalla, membro dell’Executive Council dell’International Council of Museums (Icom) e presidente di Icom Italia, è stato dirigente del Settore Musei della Città di Torino e ha fatto parte del gruppo tecnico per la redazione dell’Atto di indirizzo sui criteri tecnico scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei contenuto nel Decreto Ministeriale del 10 maggio 2001. 

Dottor Jalla, secondo gli standard di sicurezza, che cosa non deve assolutamente mancare in un museo?

L’analisi dei rischi. È una procedura consolidata: ve ne sono tracce già nell’Atto d’indirizzo del 2001 che comporta un approccio globale alla questione. Accanto a essa vi sono altri due elementi determinanti: le dotazioni tecniche e l’organizzazione umana. Delle prime sono grosso modo dotati tutti i musei: vanno dal semplice allarme antincendio e antifurto agli impianti più sofisticati nei musei medio-grandi. Questi sistemi danno la possibilità di essere immediatamente allertati ma anche di vedere che cosa accade. I sistemi di videosorveglianza possono essere controllati in loco e anche in remoto e per più musei. Secondo elemento determinante è l’organizzazione. C’è la necessità di prevenire, il che vuol dire vigilare, controllare, chiudere, aprire secondo procedure definite, chiare e verificate e poi intervenire in caso d’emergenza. Lo standard è di processo e di procedura, non è di misura. 

Secondo lei è cambiato qualcosa nella scala dei rischi alla luce dei recenti avvenimenti terroristici? 

Ci sono rischi di scala così alta e per i quali l’analisi delle probabilità è talmente complessa che è molto difficile pensare comportino cambiamenti all’interno di un singolo museo. Un caso come Castelvecchio a Verona si scongiura attraverso un’indagine ambientale che compete alle Forze dell’ordine. Se queste mi allertano che esiste una situazione di rischio maggiore, posso mettere in atto misure adeguate. Certo, alcuni provvedimenti in più potrebbero essere presi come l’introduzione di sistemi di analisi e verifica di borse e bagagli. In casi come quello dell’Ostensione della Sindone a Torino erano in atto. 

È un problema di analisi ambientale. Individuare gli obiettivi di un’azione terroristica in Italia è molto difficile ma se esiste un costante sistema di monitoraggio si è anche in grado di identificare le anomalie.

Con l’uso delle tecnologie o anche con l’intervento umano?

Con entrambi. Se il sistema funziona nell’ordinarietà può funzionare anche nella straordinarietà del caso. In caso di emergenza, le istruzioni al personale sono semplici: mantenere la calma, evitare di creare panico, saper come far uscire le persone. Vale la regola «devi sapere che cosa fare».

Quindi anche la preparazione del personale in un museo è fondamentale.

Se assimiliamo il comportamento di un terrorista a quello di un ladro con un’arma o di un folle, grosso modo le risposte possono essere simili. Devo pensare prima alle persone e poi alle cose e devo allertare qualcuno. La soluzione è sempre nella procedura e nell’addestramento.

Il personale dei nostri musei è sufficientemente formato e pronto?

No. Salvo eccezioni, temo non ancora abbastanza.

Per quale ragione? Per assenza di risorse?

Le rispondo indirettamente. Quando nel 2001 venne elaborato l’Atto di indirizzo uno degli ambiti che nel Codice etico Icom era unico per «Strutture e sicurezza» fu diviso in due per dare risalto alla sicurezza come elemento non sufficientemente presente nella cultura di gestione dei musei. Il responsabile della sicurezza ha un’importanza simile al conservatore, allo storico dell’arte, al curatore. Il personale dei nostri musei è sottovalutato: è frustrato, incattivito, invecchiato. Il problema delle risorse è generale, ma non irrisolvibile. Dipende da come sono distribuite. Certo che se poi il singolo direttore si distrae da questo problema per concentrarsi, ad esempio, sulla politica delle mostre è come se uno non si lavasse i denti tutte le mattine. 

Secondo lei quale dovrebbe essere il giusto equilibrio tra la fruizione degli spazi e le misure di sicurezza?

È un equilibrio che va cercato. In Germania all’epoca del gruppo terroristico Rote Armee Fraktion in molti musei le opere furono protette da vetri antiproiettile. Sono rimasti e sono un elemento di disturbo. È un’equazione che si risolve caso per caso. Il problema del personale comunque non è la quantità, ma la qualità. Il guardiano piantato su una sedia non serve. Il sistema migliore è quando egli si sposta, vigila, guarda, assiste il pubblico. I visitatori devono sentirsi sicuri, non sorvegliati come fossero delinquenti. In alcuni musei spagnoli ho visto dei terribili guardiani con delle Colt 45: non serve a nulla.  A un addetto alla sicurezza può servire più un corso di pubbliche relazioni che un corso di tiro a segno. Il guardiano di un museo non è un poliziotto: è un addetto all’accoglienza e alla vigilanza. Che è tutta un’altra cosa. 

Veronica Rodenigo, 10 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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