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Cuccioli e dobermann

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Franco Fanelli

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Emmanuel Perrotin a spasso ai Giardini e all’Arsenale di Venezia spingendo il passeggino con il bambino piccolo avuto dalla top-moglie in sua compagnia, era una delle apparizioni ricorrenti e si direbbe ubique alla vernice della Biennale. La sacra famiglia galleristica ha di gran lunga oscurato Eva e Adele.

L’ouverture della mostra d’arte contemporanea più antica del mondo (quest’anno anche nelle scelte e in certi premi) ha qualche familiarità con uno di quei ciclici rendez-vous, cari agli etologi e ai documentaristi di Rai5, di cetacei, pesci e uccelli migratori, che in determinati periodi si danno convegno in certe parti del mondo per assolvere a diverse funzioni biologiche, dall’alimentazione all’accoppiamento, dal parto allo svezzamento. Dato l’alto numero di giovani coppie di artisti, collezionisti, curatori e suiveur di varia caratura e funzione in compagnia di cuccioli di pochi mesi, c’è da pensare che per una certa nomade tribù di umani la Biennale sia uno di quei luoghi. Possiamo solo presumere con quanta foga, creatività e amore, sugli yacht e nelle camere d’albergo ci si dia da fare, tra i maschi e le femmine di quella tribù così autoidentificata nel suo habitat culturale, per poter orgogliosamente dire agli amici, alla Biennale di due anni dopo, che il piccolo/a alla sua prima uscita tra padiglioni e Corderie è stato concepito durante l’edizione precedente. Ma un antropologo, soprattutto, può identificare la vernice in Laguna alla stregua di un rito iniziatico, in cui il piccolo viene presentato al tempio, ai sacerdoti e agli altri adepti, con il medesimo commosso orgoglio con il quale il padre di Kunta Kinte elevò al cielo il suo primogenito neonato.

Presumiamo, non senza un certo raccapriccio, che i genitori identifichino questo rito non solo come una biennale cerimonia della fertilità, ma anche come una sorta di iniziazione dell’ancora incosciente creatura ai misteri dell’arte contemporanea, un imprinting che si giova delle numerose opere che suggeriscono ludiche emozioni. Si riaprirebbe così l’ormai annosa questione sull’opportunità e sui risultati di avvicinare precocemente i bambini all’arte attuale, ma si tratta di una riflessione che inevitabilmente porterebbe a non lusinghiere considerazioni sulla piacioneria e sull’effetto luna park di tanta arte attuale, oltre a non necessariamente entusiaste conclusioni sulle funzioni e sulle strategie didattiche di mostre e musei assetati di «popolarità» e di bigliettazione.

Ci limitiamo, per il momento, a pensare alla stizzita e imbarazzata reazione dei raffinati genitori qualora (ed è probabile) le entusiastiche e inevitabili manifestazioni di apprezzamento delle loro creature siano rivolte a opere tipo il cavallo bianco nel padiglione argentino, i cigni al neon in quello della Repubblica Ceca, le tartarughe colorate delle Seychelles... In casi così incresciosi, ci preoccupa ipotizzare, per gli incauti minori, spaventosi riti purificatori imposti dai loro procreatori in padiglioni esteticamente «sani»: ad esempio la fruizione protratta dei video nel padiglione olandese o la costrizione al lavoro minorile producendo a cottimo, insieme ai rifugiati, sino a farsi sanguinare le manine, lampade per Olafur Eliasson. Per non dire di più efferate minacce: «Se continui a dire così, ti faccio mangiare dai dobermann nel padiglione tedesco (così diamo anche una svolta partecipativa all’opera)».

Franco Fanelli, 04 giugno 2017 | © Riproduzione riservata

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Cuccioli e dobermann | Franco Fanelli

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