Lucrezia Mutti
Leggi i suoi articoliIl Marocco è stato colpito a partire dall’8 settembre da un forte sisma (magnitudo 6,8 della scala Richter), che ha avuto il suo epicentro nella provincia di Al Haouz, a circa 70 chilometri da Marrakech, lasciando dietro di sé un tragico bilancio di perdite umane. I danni sono estesi anche alla città di Marrakech e alle province di Ouarzazate, Azilal, Chichaoua e Taroudant.
Al Haouz, nella regione di Marrakech-Safi, ospita numerosi villaggi tradizionali costruiti principalmente in terra, spesso situati in zone difficilmente raggiungibili, ma anche numerosi siti e monumenti storici come la Grande Moschea di Tinmal, patrimonio nazionale, ridotta oggi a un impressionante cumulo di macerie.
Già a pochi giorni dalla tragedia, il Fondo speciale emergenza sisma del Marocco aveva superato la soglia dei 5 miliardi di dirham (circa 470 milioni di euro), raddoppiati a fine settembre. Re Mohammed VI (da alcuni accusato di latitanza nei primi momenti dell’emergenza: la prima riunione di Governo s’è tenuta solo 60 ore dopo il sisma, Ndr) ha donato personalmente un miliardo, seguito dall’Ocp (il principale gruppo industriale marocchino di fosfati), dagli istituti bancari, Bank Al Maghrib in testa, dagli enti della pubblica amministrazione e da numerose imprese nazionali come la catena di grande distribuzione Label Vie e McDonald’s Morocco.
Il 15 settembre, il Governo ha fatto sapere che ministri e alti funzionari contribuiranno nella misura di un mese di stipendio ciascuno e che ogni funzionario statale devolverà un giorno di salario dei prossimi tre mesi. Mohammed VI ha poi annunciato che ciascuna famiglia direttamente colpita dal sisma riceverà 2.800 euro quale sostegno di primo soccorso, mentre 7.500 euro e 13mila euro andranno rispettivamente alle famiglie con la casa parzialmente distrutta e a quelle che hanno perso tutto. Nonostante le numerose testimonianze di solidarietà e offerte di aiuto provenienti da tutto il mondo, Rabat ha quindi deciso di accettare aiuti soltanto da quattro Stati: Spagna, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Se nei soccorsi le varie forze del Paese hanno agito con prontezza e all’unisono, il tema ricostruzione, in particolare del patrimonio culturale e storico, genera già polemiche.
Segnato dal terremoto di Agadir del 1960 che rasò al suolo l’intera città e da quello più recente di Al Hoceima nel 2004, il Marocco ha applicato le leggi antisismiche e promosso fortemente l’uso del cemento armato per le nuove costruzioni sul territorio. Un errore, questo, secondo molti esperti del settore che non condividono la diffusa opinione sulla fragilità delle costruzioni tradizionali in terra. In effetti, questa calamità sopraggiunge in un momento in cui il movimento di valorizzazione delle tecniche tradizionali, avviato diversi anni fa, pare essere al suo culmine. Il movimento, caldeggiato da numerosi architetti marocchini e internazionali, si esprime contro l’uso indiscriminato del cemento armato che, come in molti Paesi, anche in Marocco sta soppiantando le tecniche vernacolari, più compatibili con il clima e adatte a rispondere agli eventi naturali.
L’architetta e antropologa di origine marocchina Salima Naji, definita in Francia come «colei che mescola cielo e terra cruda», negli ultimi vent’anni ha guidato il restauro di strutture di alto valore storico e culturale nell’Atlante e Anti Atlante marocchino come la medina di Tiznit e il granaio collettivo di Sidi Aissa, presso Akka. Naji afferma con convinzione che dopo la catastrofe bisogna ricostruire vincendo la doppia sfida dell’adattamento alle condizioni climatiche e della resistenza ai sismi. «Le soluzioni edili esistono, afferma: sono già state impiegate e hanno resistito al sisma. Materiali come terra, pietra e legno sono assolutamente adatti ancora oggi. Si tratta di utilizzarli con cognizione».
Elie Mouyal, architetto marocchino specializzato sin dalla fine degli anni ’80 in costruzioni in terra e bioclimatiche, propone un metodo singolare di ricostruzione, che prevede la partecipazione degli abitanti al processo, oltre all’utilizzo di materiali di recupero e di un cappotto isolante per combattere il rigore dell’inverno sull’Alto Atlante. Anche l’architetto belga Quentin Wilbaux, specialista della medina di Marrakech dove ha firmato il restauro di oltre 137 riad (palazzi giardino tradizionali caratterizzati da un ampio patio centrale, sullo stile arabo andaluso, sempre più convertiti in residenze e boutique hotel per il turismo internazionale), considera che il problema principale non sono i materiali tradizionali, ma le tecniche di costruzione.
«Oggi si dice che le case crollate sono in maggioranza quelle tradizionali, ma io penso che non sia del tutto vero, afferma. Tutti i villaggi molto vicini all’epicentro nell’Atlante sono villaggi principalmente costruiti in terra perché remoti, tradizionali e poveri, ma altri più recenti e in cui si è fatto un ampio impiego di cemento, come Moulay Brahim, sono stati ugualmente distrutti, con analoga violenza».
«Per quanto riguarda lo stato del patrimonio culturale, i danni sono immensi e i lavori di restauro devono essere intrapresi con la massima urgenza», spiega il professor Karim Rouissi, architetto per l’associazione Architectes et Développement a Casablanca e professore associato presso La Sorbona di Parigi, impegnato in questi giorni in un instancabile monitoraggio nelle zone colpite dal sisma. È il caso proprio della splendida Grande Moschea di Tinmal, insieme fortezza medievale e luogo di preghiera di epoca Almohade (XII secolo), sulla strada tra Marrakech e Taroudant.
In fase di iscrizione nella Lista del Patrimonio dell’Umanità Unesco fin dal 1995, al momento del terremoto era in corso di restauro (avviato nel 2000). Rouissi sottolinea l’urgenza di consolidare rapidamente le parti superstiti prima dell’arrivo delle piogge autunnali che rischiano di distruggere le poche porzioni rimaste integre. «La situazione è ancora più a rischio per i monumenti che non sono classificati come patrimonio nazionale, dei quali si hanno pochi studi e quasi nessun rilievo architettonico che ci aiuti nei restauri e nell’eventuale ricostruzione», insiste Rouissi.
D’altra parte, questi monumenti sono spesso di proprietà privata, fattore che complica ancor più la situazione, come la kasbah Goundafi, a 50 chilometri da Asni, distrutta dal sisma insieme al 90 per cento delle case del villaggio, ma anche i granai collettivi, molto diffusi nel Paese, i resti dei villaggi giudeo marocchini (tuttora proprietà delle famiglie ebree migrate in Israele tra il 1940 e il 1960) e molti villaggi tradizionali.
«Le popolazioni dell’Alto Atlante hanno conservato delle case “ibride”, capaci di affrontare i grandi freddi invernali. Impiegare solo cemento armato è una prospettiva irrealizzabile, perché significherebbe andare incontro a una quotidianità difficile, durante diversi mesi l’anno, con case gelide d’inverno e torride d’estate», afferma Salima Naji. E porta ad esempio la base del granaio fortificato di Oufella, presso Agadir, un caso tra i tanti delle infinite possibilità di costruzione tradizionale antisismica. Ha infatti resistito alla scossa principale e alle successive di assestamento.
Anche l’imponente minareto almohade della Kutubiyya a Marrakech se l’è cavata con qualche crepa e continua a torreggiare sulla città con i suoi 69 metri di altezza. «Una prima lezione da trarre dal sisma, conclude Rouissi, è che l’architettura vernacolare tradizionale offre insegnamenti preziosi. Ciò detto, non bisogna neanche cullarsi nella nostalgia del passato, ma tener presente che l’architettura deve essere un prodotto intelligente del proprio tempo e del proprio ambiente economico, culturale, naturale».
Intanto è stata confermata l’assemblea annuale del Fondo Monetario Internazionale, prevista dal 9 al 15 ottobre a Marrakech. Con questo obiettivo, i principali musei e palazzi della città di proprietà dello Stato, come El Badii, i palazzi Bahia e Dar Si Said e il palazzo Dar el Bacha, sono oggetto di verifiche strutturali e di interventi di restauro.
In confronto con l’altro Paese nordafricano duramente colpito dagli elementi, la Libia, che conta un numero di vittime 10 volte superiore, il Marocco è stato oggetto di una solidarietà interna e internazionali formidabili. Dopo la ricostruzione, che si attende in tempi record, la sfida sarà quella di valutare e assorbire l’impatto ambientale delle azioni compiute (compreso il riciclo degli scarti), in zone dove non vi è alcuna gestione organizzata dei rifiuti.
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