Francesca Romana Morelli
Leggi i suoi articoliIn Italia agli antiquari, ai mercanti d’arte, ai collezionisti, e cioè ai protagonisti del mercato delle opere d’arte, prima o poi è capitato e sempre più spesso purtroppo capita di doversi confrontare con la cosiddetta «notifica» di un pezzo di loro proprietà.
Indipendentemente dal suo effettivo valore artistico od economico può cioè accadere che il MIC (Ministero della Cultura), sulla base di una serie di criteri valutativi, di indagini più o meno approfondite e di pareri licenziati da suoi funzionari e studiosi, «notifichi» ufficialmente al proprietario o possessore di un certo bene artistico, di avere esercitato un provvedimento di tutela su quel bene con un documento («Dichiarazione di interesse….») attraverso il quale lo Stato dichiara che tale bene ha un’importanza storico artistica eccezionale e insostituibile nello straordinario e immenso patrimonio culturale del nostro Paese, con tutta una serie di conseguenti pesanti vincoli che il provvedimento comporta.
Scandagliare il tema della «notifica», cercando di tenere conto dei diversi punti di vista (proprietari e collezionisti, mercante d’arte, lo Stato, funzionari, studiosi) significa affrontare un tema complesso e di crescente attualità, che può servire a comprendere meglio le dimensioni del problema, oltre a riservare interessanti scoperte e soprattutto stimolare nuove riflessioni. Per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno dedicare all’argomento un servizio in più puntate, ciascuna delle quali incentrata su un aspetto specifico della «notifica», coinvolgendo specialisti, che con le loro opinioni possono aiutarci a delinearne meglio il vasto orizzonte.
Viene ora spontaneo domandarsi: quando si possono intravvedere i primi segni di una forma di tutela delle opere d’arte in Italia ? E perché? Bisogna innanzitutto considerare che la concezione moderna di protezione del patrimonio artistico mette le radici in terreni che sono scenario di vicende politiche ed economiche singole e specifiche, e cioè ogni legge è formulata sulla base delle caratteristiche socio-culturali di uno Stato e della sua epoca.
Nell’introduzione ad un volume rieditato nel 2015 con il contributo dell’AAI sulle raccolte di leggi emanate negli stati italiani preunitari, l’ex-Soprintendente Emiliani rimarca che la normativa nel Settentrione della Penisola non intendeva «irrigidire l’iniziativa con vincoli troppo serrati», perché in quei territori, a differenza dello Stato Pontificio e del Meridione, non è urgente «il problema dell'antico e delle sue sopravvivenze costanti, e dunque degli scavi e dei ritrovamenti, del riutilizzo dei materiali storici, dell'edilizia distruttiva e infine anche di un turismo di rapina e di alienazione.»
È in Toscana e nello Stato della Chiesa che tra Quattro e Cinquecento la pianta umanistica frutta con caratteristiche più originali, stringendo un forte legame di continuità con la classicità e le sue vestigia, che spesso sono però spogliate o distrutte per fare spazio a nuovi edifici. Un saccheggio compiuto da secoli, e all’epoca non soltanto da parte della popolazione.
Un esempio illuminante è offerto da Papa Pio II Piccolomini, tra i più appassionati umanisti del tempo, sensibile al problema della salvaguardia dei monumenti classici tanto da arrivare ad emanare una bolla (1462), che proibisce di danneggiare le antiche memorie architettoniche e artistiche, ma allo stesso tempo permette di prelevare pezzi di travertino dal Colosseo per l’edificazione della Loggia delle Benedizioni (in seguito abbattuta) antistante la vecchia basilica petrina.
Nei primi due decenni del Cinquecento, all’apice di una favolosa fioritura artistica, Roma non è più la Città Eterna sognata e fantasticata dagli artisti ma un immenso laboratorio a cielo aperto, denso di edifici antichi da studiare ed opere celate dal sottosuolo, che diventano modelli per una città in continua trasformazione.
Nei suoi ultimi anni di attività Raffaello intraprende un progetto antiquario notevole: la ricostruzione grafica, in pianta, in alzato e in sezione, dei maggiori monumenti di Roma antica, utilizzando fonti letterarie classiche, rilevamenti topografici e sui ruderi, mettendo nero su bianco quello che deve essere notificato e acquistato dalla Stato, un compito che l’Urbinate svolge in seguito alla nomina da parte di Leone X Medici a «praefectus marmorum et lapidum omnium» (una sorta di primo soprintendente della storia!).
È databile al 1519 l’abbozzo di un suo celebre appello al Papa destinato alla pubblicazione, vergato dalla mano dell’amico Baldassare Castiglione e completato da una pianta disegnata di Roma antica con i rilievi dei principali monumenti archeologici: un documento dal contenuto ideale straordinario e connotato da una formidabile mentalità moderna, che guarda all’antico come a un patrimonio di valori sociali e culturali ( acquistato dalla Direzione Generale Archivi nel 2016, è conservato all’Archivio di Stato di Mantova ): «(…) Quanta calce si è fatta di statue e d'altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch'ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata di calce e marmi antichi (...). /Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, per testimonio del valore e della virtù di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtù gli spiriti che oggidì sono tra noi, non sia estirpato, e guasto dalli maligni e ignoranti».
Nel neonato Granducato di Toscana, l’autoritario Cosimo I de Medici, eletto giovanissimo a capo del governo fiorentino, rifonda e potenzia lo stato mediceo. Nel 1571 emette una legge sulla tutela degli esterni degli edifici fiorentini, con particolare attenzione agli stemmi posti sulle facciate dei palazzi aristocratici, spesso non più abitati dalle importanti famiglie originarie, perché esiliate dallo stesso Cosimo, che invece, per rimarcare il suo potere, sposta la dimora a Palazzo Vecchio.
Dalla fine del Cinquecento, sempre nel Granducato l’opera di tutela si concentra anche sul mondo mineralogico. Come mai? L’edificazione delle monumentali Cappelle Medicee richiede marmi rari e pietre semi preziose con cui incrostare le superfici dei sarcofagi. D’ora in poi raccogliere pietre semipreziose nel territorio granducale, come agate e diaspri, è un reato punibile con multe salate, la galera e perfino il temutissimo esilio a Livorno. Nel 1588, per volere di Ferdinando I de’ Medici, è istituito l’Opificio delle Pietre Dure, destinato alla lavorazione di arredi in pietre dure (oggi modernissimo centro di restauro).
In questa fase del Cinquecento, a Firenze l’artista ottiene un livello di considerazione all’interno del mondo culturale raramente toccato in altre epoche, un fenomeno i cui effetti non tardano a farsi sentire. Su consiglio di Giorgio Vasari, Cosimo I fonda l'Accademia del Disegno (1563). Nel palazzo degli Uffizi, (progetto vasariano) è allestita intorno al 1580 la prima grande raccolta di opere d’arte, insieme al resto dei tesori medicei, una tra le prime gallerie, templi di una nuova religione del bello.
Agli albori del Seicento è chiara la coscienza di una necessaria salvaguardia del patrimonio pittorico più recente, lasciato da diciotto grandi artisti scomparsi: da Michelangelo a Tiziano, da Raffaello a Correggio, da Bronzino a Parmigianino, le cui opere sono «notificate» e dichiarate non esportabili, tranne i ritratti, i paesaggi e i piccoli quadri capoletto. Nel tempo all’elenco saranno aggiunti altri nomi. L’istituzione vasariana diventa dunque l’organo preposto al controllo del patrimonio artistico, anche di quello contemporaneo. Ai dipinti di autori viventi si riconosce la libera circolazione, ma solo dopo essere stati visionati dalla commissione responsabile.
In pochi anni lievita notevolmente il volume delle opere da vagliare, così per gli artisti viventi si adotta un sistema di «autocertificazione». È importante sottolineare che il provvedimento serve a ovviare la lentezza burocratica che è causa di una perdita di competitività degli artisti toscani nei confronti dei colleghi di Roma, Venezia e Milano, che invece possono spedire all’estero «senza tante soscrizioni e bolli qui necessari». È questo un segno evidente che la tutela ha imboccato una strada più moderna.
Nel Settecento prende avvio la moda del Grand Tour, un fenomeno fondamentale nell’evoluzione della cultura europea, che considera le città italiane luoghi dove si concentrano il meglio delle vestigia antiche e della cultura artistica contemporanea. In un bando pubblicato a Volterra nel 1761 nel periodo del Consiglio di Reggenza Lorenese appaiano i termini della «notifica» e soprattutto della «prelazione coattiva» più o meno come è intesa oggi.
Se nel Seicento lo Stato Pontificio si era orientato verso una normativa volta a impedire l'esportazione di ogni genere di bene e a favorire il diritto di prelazione da parte dello Stato, piano piano matura l’idea di considerare il «bene» legato in modo essenziale al territorio di origine, perché indispensabile per la documentazione del relativo contesto storico-artistico.
Un passo capitale verso la moderna legislazione è il celebre Editto Chirografo del 1820, redatto dal Cardinale Bartolomeo Pacca. Questi nell’enucleare le norme riguardanti il regime di tutela delle chiese, per la prima volta considera i problemi che possono derivare anche dall’interno degli organi amministrativi; rimodellando le regole riguardanti gli scavi archeologici e la loro esportazione, fissa i principi in materia di «vincolo» delle opere d'arte di proprietà pubblica e privata, e rimarca il diritto di prelazione dello Stato nei confronti delle opere in vendita.
La prima legge sui «beni culturali» profondamente organica e matura rispetto al giovane Stato italiano alla difficile ricerca di una propria identità, è opera, nel 1909, di una formidabile mente della destra liberale, l’avvocato toscano Giovanni Rosadi, che in modo eccezionale per i tempi include anche la tutela dell’ambiente e del paesaggio. Nell’introduzione del disegno legislativo manifesta immediatamente una mentalità laica evidenziando i lati inquisitori dell’Editto Pacca, pur riconoscendone l’importanza.
Rosadi è profondamente convinto che l’opera di conservazione è un servizio pubblico e bisogna promuovere negli italiani una coscienza e una responsabilità attive. Negli artt. 5 e 6 mette ordine nel campo della notifica e del conseguente diritto di prelazione da parte dello Stato. Ma il lato veramente interessante è la relazione introduttiva sulle «Ragioni D’una Nuova legge per le Antichità e le Belle Arti», in cui spiega le motivazioni e il percorso storico della legge stessa, partendo dal diritto romano.
Oltre a essere un’opera di alto valore letterario, la legge Rosadi contiene dunque al suo interno i medesimi temi e le medesime domande che dopo centotredici anni ancora ci poniamo nel trattare il nostro patrimonio artistico, soprattutto nel caso di opere «notificate». Varrà perciò la pena di capire meglio i punti nodali di questa straordinaria e avvincente storia, soprattutto in relazione all’attuale legislazione, ma questo sarà il tema del prossimo articolo.
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