Luana De Micco
Leggi i suoi articoliL’installazione di cera di Urs Fischer ha cominciato a sciogliersi lentamente sotto la cupola di vetro della Bourse de Commerce di Parigi, il nuovo museo della Collection Pinault. Al centro della suggestiva sala circolare, come delle gigantesche candele, la replica del «Ratto delle Sabine» del Giambologna, alcune sedie sparse e la silhouette silenziosa di un uomo in piedi (l’amico artista Rudolf Stingel), sono state «accese» e in sei mesi si saranno consumate davanti agli occhi dei visitatori.
Il nuovo museo di François Pinault, la cui apertura è stata rinviata di un anno a causa della pandemia, apre le sue porte il 22 maggio. «Qui non vedrete né Jeff Koons, né Murakami, né Damien Hirst. A parte qualche rara eccezione (tra cui il Giambologna rivisitato da Fischer, presentato alla Biennale di Venezia del 2011, Ndr) abbiamo scelto solo opere mai presentate al pubblico. Un modo per mostrare che la collezione è in movimento perpetuo. L’esposizione inaugurale, “Ouverture”, nasce dall’idea che l’arte non è chiusa su se stessa, tagliata fuori dal mondo, ma che è aperta alla dimensione umanista e alle problematiche del mondo moderno, politiche, sociali, razziali, postcoloniali e di genere», spiega Martin Béthenod, ex direttore dei musei Pinault di Venezia (città per la quale, confida, prova molta «nostalgia»), ora alla testa del museo parigino.
A qualche giorno dall’inaugurazione, ci ha fatto da guida nell’allestimento, su cui si è custodito un geloso segreto fino all’inaugurazione. La Bourse de Commerce che fa oggi da scrigno alla collezione del miliardario francese, anni dopo il fallimento del progetto di museo sull’île Seguin, è un edificio spettacolare, insolito per la sua forma circolare, restaurato con maestria.
Nel Settecento era la Halle au blé, il magazzino del grano, poi convertito alla compravendita delle materie prime nel 1889 dall’architetto Henri Blondel. Mai aperto al pubblico prima d’ora, è una scoperta per gli stessi parigini. Pinault, che per il restauro ha speso 194 milioni di dollari, ha affidato il nuovo progetto architettonico al fedele Tadao Ando che, a Parigi come già a Venezia, ha fatto dialogare senza urti passato e presente.
In questo caso, l’architetto giapponese, affiancato dall’agenzia NeM/Niney e Marca Architectes e con la supervisione di Pierre-Antoine Gatier, architetto dei monumenti storici, ha ideato un cilindro di cemento minimalista, rispettoso dei decori antichi, mai invadente, alto circa 10 metri. «Ando ha ritrovato qui tutti gli elementi di grammatica, il cilindro, la cupola e il cielo, del Panthéon di Roma, che per lui è un riferimento architettonico assoluto», ha precisato Béthenod.
Le scale che corrono lungo il cilindro danno accesso alle dieci gallerie espositive e, in cima, sotto gli occhi dei curiosi «piccioni» di Maurizio Cattelan, si possono guardare più da vicino l’immensa cupola e l’affresco ottocentesco che orna le pareti. L’arte è ovunque, negli spazi per l’accoglienza del pubblico con Martial Raysse, e nei corridoi, con il delizioso topolino parlante di Ryan Gander.
Nelle 24 antiche vetrine di legno restaurate sono allestite le opere di Betrand Lavier. Una bella galleria è dedicata a David Hammons, figura di spicco del Black Art Movement, ai suoi body print e agli assemblaggi. Anche la luce naturale è ovunque. Le sale che si susseguono non sono white cube, ma gallerie affacciate sui tetti del quartiere dinamico e di recente rinnovato di Les Halles, sulla chiesa di Saint-Eustache e il vicino Centre Pompidou.
«Non abbiamo voluto separare in spazi diversi gli artisti affermati e quelli della giovane generazione nati negli anni Ottanta e Novanta. Abbiamo preferito organizzare un dialogo intorno alla figura umana». Alle pitture come fotografie di Stingel (che rivestì di tappeti Palazzo Grassi nel 2013) seguono i lavori sull’identità di Ser Serpas, 26enne artista trans statunitense. Alle «teste» di Thomas Schütte e alle pitture di Martin Kippenberger sono affiancati i quadri a scene urbane di Florian Krewer, classe 1986. Sono esposti gli «Skulls» di Marlene Dumas, le enigmatiche tele di Luc Tuymans e le donne spettrali di Miriam Cahn.
La galleria di fotografie è più intimista. Vi sono presentati i film still di Cindy Sherman, la serie delle «24 ore della vita di una donna ordinaria» in cui Michel Journiac, artista di Body art, si mette in scena parodiando i cliché sulla donna degli anni Settanta, e i cowboy di Richard Prince. Di forte impatto è «Helms Amendment» (1989), un’opera politica raramente esposta di Louise Lawler, un «name and shame» del Senato Usa che, nell’87, vietò il finanziamento pubblico di ogni forma di azione di lotta e prevenzione dell’Aaids che «facesse, direttamente o indirettamente, l’apologia dell’omosessualità».
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