Flavia Foradini
Leggi i suoi articoliPresentato in anteprima al Festival di Cannes 2023 e ora in programmazione sia nei cinema di lingua tedesca in versione originale, sia in Francia, «Anselm-Das Rauschen der Zeit» (Anselm-Il mormorio del tempo) è un docufilm con cui Wim Wenders conduce per 93 minuti lo spettatore nel mondo misterioso e fuori scala di Anselm Kiefer.
I luoghi prescelti per l’articolato racconto sono la tenuta «La Ribaute» a Barjac, a una settantina di km a nord di Avignone, dimora e principale luogo di lavoro dell’artista fino al 2007; l’attuale atelier di Croissy alla periferia di Parigi; la casa della sua infanzia a Ottersbach in Germania, e Palazzo Ducale a Venezia.
Realizzato in oltre due anni di lavoro, ma basato su un’amicizia che data dall'inizio degli anni ’90, il docufilm di Wenders (anch’egli nato nel 1945) prende le mosse dalle decine di edifici che costellano gli oltre 40 ettari di «La Ribaute», dall’anno scorso aperta al pubblico e gestita dalla fondazione Eschaton.
La narrazione prescinde da interventi di esperti ed è l’aspetto visivo a prevalere, interrotto solo da qualche commento del 78enne artista tedesco («L’uomo è meno che una goccia di pioggia») e da schegge di vita in ordine sparso: in una Germania all’alba della ricostruzione vediamo Kiefer bambino (interpretato da Daniel Kiefer) e precocemente attirato dal disegno; vediamo Kiefer giovane (interpretato da Anton Wenders), che dice a un giornalista di non volersi definire antifascista per non sembrare presuntoso nei confronti dei combattenti della resistenza: forse un inserto per togliere nerbo alle accuse di vicinanza al nazismo, che soprattutto in area germanica hanno in parte caratterizzato la sua ricezione. Vediamo anche immagini d’archivio concernenti l’artista, e ascoltiamo citazioni sussurrate da testi fra l’altro di Paul Celan e Ingeborg Bachmann, che Kiefer ha utilizzato sovente nelle sue opere: un ulteriore strumento con cui Wenders pare voler smontare lo stigma politico.
La cifra dell’arte e dei luoghi di Kiefer, che domina anche il film di Wenders, è la monumentalità. Una teatrale grandiosità che lascia a bocca aperta, e un poco annichilisce. Come la selva di Palazzi Celesti che si leva dal terreno di La Ribaute o l’inquietante anfiteatro che pare un gigantesco teatro anatomico postcatastrofe, o ancora i sinistri cunicoli che collegano i vari spazi, o i paesaggi aperti su una natura tranquillamente sovrana. Un effetto potenziato dall’immersione dentro al racconto grazie al 3D, che Wim Wenders sceglie di nuovo, come per un altro film su un’artista, «Pina», dedicato alla coreografa Pina Bausch (2011).
La dimensione 3D in definizione 6K è un invito congeniale a lasciarsi portare dentro i meandri della creazione artistica di Kiefer, che rifugge dalla bidimensionalità, e lanciare sguardi sia dietro alle quinte dell’essere artista sia del farsi dell’arte in una modalità di totale, infaticabile e imperturbabile concentrazione quotidiana.
Ecco allora l’artista che lavora a un dipinto a colpi di fiamma ossidrica, o spinge con slancio indifferente un’enorme tela verso la posizione desiderata in un capannone faraonico, o gira fischiettante in bicicletta nei vasti spazi dei padiglioni, controllando gli immensi scaffali stipati di opere. Ed è forse questa di Kiefer su una vecchia bicicletta nera che vaga nei suoi atelier l’immagine che rimane più impressa nel ricordo di questo docufilm che sembra parlare a ciascuno spettatore.
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