Franco Fanelli
Leggi i suoi articoli«A Rivoli è esplosa l’utopia»: così, nel dicembre del 1984, il quotidiano «La Stampa» annunciava l’inaugurazione di un Castello diventato sede del primo museo d’arte contemporanea in Italia. L’erede di quell’utopia, scaturita dal sogno di un assessore regionale alla Cultura, Giovanni Ferrero, è oggi Francesco Manacorda, entrato in carica il primo gennaio 2024, succedendo a Carolyn Christov-Bakargiev.
Lei è stato nominato alla direzione del Castello di Rivoli dopo aver guidato due edizioni di Artissima e aver diretto la Tate Liverpool e la V-A-C Foundation di Mosca. Che cosa porta «in dote» da queste esperienze?
Forse è dall’esperienza alla Tate Liverpool che io porto più cose. Mi riferisco a una struttura in cui il museo non è una torre d’avorio intellettuale, ma deve essere un ponte tra gli artisti e il pubblico. Questo ponte va costruito in modo che venga percorso dal più alto numero possibile di passanti. A Londra ho capito che noi siamo servitori pubblici, lo sono i musei e la vera missione del museo non è solamente, per quanto fondamentale, quella di raccogliere e conservare opere per il futuro dell’umanità, ma anche quella di mettere il pubblico nelle condizioni di comprendere, apprezzare e utilizzare l’arte contemporanea. Ciò che ho imparato lavorando per cinque anni con Nick Serota è che si può gestire un museo curatorialmente, così com’è possibile curare in maniera manageriale, cioè in maniera efficiente.
Al di là delle acquisizioni effettuate dalla Fondazione Crt ad Artissima, e destinate a voi e alla Galleria Civica di Torino, Rivoli continua a incrementare le sue collezioni?
Sì, ma a misura dei tempi attuali, che sono quelli del post Covid, dei tagli ai fondi pubblici ecc. Però tengo molto a questo aspetto. Ho attivato, con buoni risultati, una strategia di fundraising. La missione numero uno è la creazione del patrimonio pubblico.
Quanto costa oggi far funzionare il Castello di Rivoli?
Il nostro bilancio annuale è poco più di 5 milioni di euro, la metà circa dei quali finanziata dalla Regione Piemonte. Poi ci sono enti pubblici e fondazioni bancarie. Il Museo opera finanziariamente a livello minimo, quindi per stabilizzarlo sto lavorando su vari fronti in modo che si consolidi sia finanziariamente sia dal punto di vista degli investimenti di conto capitale, cioè degli investimenti pensati per mantenere l’edificio stesso.
In quale misura il Museo paga la sua posizione decentrata rispetto a Torino in termini di visitatori?
La paga in misura molto pesante. Però ci sto lavorando. Con un accordo tra Città metropolitana, la Città di Rivoli e la Città di Torino, inauguriamo un nuovo collegamento pubblico. Una nuova navetta di linea attende alla stazione ferroviaria di Alpignano i visitatori che vi arrivano da Torino utilizzando il treno per la Val di Susa, che parte ogni 30 minuti circa dalla stazione di Porta Nuova. Il viaggio dura circa 30 minuti.
Dal 2019 fa capo al Castello di Rivoli anche la vicina casa museo contenente la Collezione Francesco Federico Cerruti, con 300 opere dal XIV al XX secolo, oltre agli arredi e alla biblioteca. Non deve essere facile connettere due collezioni e due ambienti così diversi...
Anche nella Collezione Cerruti, però, esistono intrecci tra epoche diverse: nella sala della musica, ad esempio, sul pianoforte si vedono opere di Medardo Rosso e Giacometti e sullo sfondo c’è Pontormo. Queste corrispondenze e queste affinità elettive attraverso il tempo e lo spazio mi hanno sempre affascinato. Per «Ouverture 24» due o tre pezzi di quella raccolta migreranno al Castello. Le penso come delle interferenze radiofoniche, di quelle in cui t’imbatti mentre cerchi un canale.
Festeggiate il quarantennale con un allestimento che, recita il comunicato stampa, mette in evidenza «i principi guida all’origine dell’istituzione» e la sua proiezione «nel futuro con i suoi valori fondativi rinnovati». Come si traduce nella pratica tutto questo?
La mia idea è quella di dire: «Guardate che cosa ha fatto lo staff prima che io arrivassi, è una cosa incredibile». Abbiamo un patrimonio che se lo portassimo a Kuala Lumpur, potrebbe costituire il materiale per una biennale. In termini pratici, con Marcella Beccaria (vicedirettore del Museo, Ndr) riallestiamo i tre piani del corpo principale del Castello. Ovviamente ci sono alcune opere che non possono essere rimosse, come quelle, all’interno, di Lothar Baumgarten e Sol LeWitt o le sculture, all’esterno, di Calzolari e di Fabro. Però, per tutto ciò che ce lo consentiva, abbiamo voluto reinstallare il museo utilizzando l’attitudine e la formula di Rudi Fuchs, e non a caso il titolo della mostra, «Ouverture 2024», ricalca quello del suo primo allestimento. Abbiamo deciso di fare quello che avrebbe fatto lui se fosse stato della nostra generazione e se fosse arrivato al Castello ora. Le opere sono tutte prodotte o realizzate dopo l’anno 2000 da artiste e artisti che hanno influenzato e fatto la storia dell’arte dal 2000 al 2024. Tutto ciò per riaffermare questa idea iniziale di Fuchs ma anche di Alberto Vanelli (dirigente della Regione Piemonte nell’Assessorato di Giovanni Ferrero, Ndr) e quindi della volontà politica e culturale della città e della regione, dichiarando: «Ci serve un’istituzione che si occupi dell’oggi e ci crediamo».
Fuchs partì, sostanzialmente, senza una collezione…
Ovviamente io la collezione ce l’ho, per cui invece di fare una mostra prendendo in prestito tutto quello che mi piacerebbe avere, posso avvalermi delle opere che, negli anni, sono state acquistate sotto la direzione di Ida Gianelli, di Beatrice Merz e Andrea Bellini, di Carolyn Christov-Bakargiev. Ci sono artisti che rappresentano la storia del nostro museo, ad esempio Anna Boghiguian, Anri Sala, Hito Steyerl o Roberto Cuoghi, protagonisti di mostre in occasione delle quali sono state fatte delle acquisizioni. Però, come Fuchs, ho voluto inserire quattro-cinque opere che non sono parte della collezione ma che a me piacerebbe lo fossero.
Quali sono queste opere?
Vorrei riservarmi un po’ di sorpresa…
Come vanno i rapporti con la Gam?
I rapporti sono ottimi e pensiamo di continuare a collaborare, non solo con la Gam ma anche con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, la Fondazione Mario e Marisa Merz, il Museo Agnelli ma anche il Mao, il Museo di Arte Orientale, perché il suo direttore, Davide Quadrio, sta conducendo un lavoro intorno all’oggi e al contemporaneo. Nel momento in cui tutti operiamo con le risorse un po’ «tirate», diventa fondamentale collaborare. E poi è interessante questa «congiunzione astrale» in cui la Gam con Chiara Bertola, il Mao con Quadrio, Artissima con Luigi Fassi e appunto Rivoli hanno rinnovato recentemente i loro direttori. E in più siamo tutti amici, d’accordo su una parte determinante dei nostri mandati: si tratta di usare i soldi pubblici e il bene comune per farlo arrivare più lontano possibile.
Il Castello di Rivoli riesce a esportare sé stesso in termini di collaborazioni internazionali? Siete un punto di riferimento per i prestiti?
C’è una reciprocità costruita nel tempo e che continua a essere vitale. Devo dire che non mi ero mai reso conto prima di quanto il Castello di Rivoli costituisca un punto di riferimento internazionale. Mi capita quando viaggio per proporre una mostra o per scambiare idee di future collaborazioni: nel 90% dei casi la prima cosa che mi sento dire è: «Il Castello di Rivoli è il mio museo preferito al mondo». Me lo dicono i direttori dei musei, i giornalisti, i collezionisti e stiamo parlando di persone che di musei ne conoscono tanti. La mia aspirazione è che i torinesi, i piemontesi e gli italiani abbiano questa stessa relazione con il Castello.
Che cosa distingue il Castello di Rivoli da molti altri musei attivi in Europa o nel mondo?
Il Castello stesso. Se io mettessi il cavallo appeso di Cattelan anche nella più bella sala di Renzo Piano al Whitney Museum non avrebbe lo stesso effetto. E poi, se chiedessi a Cattelan di creare un lavoro e non avessi la sala barocca di Juvarra, secondo me l’opera riuscirebbe meno bene. Esagero, però ha capito che cosa intendo dire…
Siete stati tra i primi in Italia a occuparvi di didattica museale. Forse anche questo è un aspetto da festeggiare, non crede?
Sì, Anna Pironti e Paola Zanini, in questo senso, hanno svolto un lavoro pionieristico, ma la didattica è ancora oggi un settore importantissimo del nostro museo. Anche a celebrazione di questo il terzo piano del Castello per questi 12 mesi di «Ouverture» sarà convertito in un ambiente dedicato ai bambini e raccontato da loro. Ci saranno, tra l’altro, anche lavori più noti e forse meno ostici, opere di Carla Accardi, Oldenburg, Colombo e saranno un bambino, una bambina, una ragazza o un ragazzo a spiegare perché si tratta di opere importanti.
Qual è il suo obiettivo principale?
Vorrei rendere questo luogo più amato. Non in senso populista, ma cercando di fare in modo che questa proiezione affettiva offra la possibilità a più persone di percepire come una rilevanza anche l’arte più «difficile», quella prodotta oggi sull’oggi.
Altri articoli dell'autore
Modelli, modelle e amanti del «diavolo divino della pittura britannica» sfilano alla National Portrait Gallery di Londra. Ma la «human presence» di questa mostra non è solo autobiografia e gossip: attraverso la figura umana, tema e rovello di tutta l’arte europea, Bacon riannodò il filo spezzato dalle avanguardie storiche e, ultimo pittore «antico», anticipò quella che sarebbe diventata l’«ossessione corporale» dell’arte contemporanea, da Nan Goldin a Damien Hirst
Nella Galleria dello Scudo 15 opere dell’artista abruzzese risalenti agli anni Ottanta, ora della collezione del mercante romano
Artista, bibliotecario, insegnante privato di francese, organizzatore e geniale allestitore di mostre: il suo celebre orinatoio capovolto è stato considerato l’opera più influente del XX secolo. Usava lo sberleffo contro la seriosità delle avanguardie storiche, e intanto continuava a scandagliare temi come il corpo, l’erotismo e il ruolo dello spettatore
Mercato e passione: l’anima di una fiera ricca di scoperte, non solo per collezionisti, ma per l’intero sistema dell’arte. Ne parla il direttore Luigi Fassi