Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliCome ha trovato il museo all’inizio del suo mandato?
Al mio arrivo ho trovato un museo in ordine e prestigioso, l’immagine stessa di un «tempio», espressione di un’idea aulica e forse anche un poco canonica dell’arte italiana. Allora mi sembrò urgente aprirlo ad altre storie e ad altri artisti, soprattutto italiani, che fino ad allora erano stati in qualche modo esclusi da una sorta di narrazione ufficiale dell’arte del secondo dopoguerra. Penso per esempio alle due mostre personali di Piero Gilardi e Luigi Ontani, i quali essendo appunto due figure irregolari, non inquadrabili nelle due maggiori correnti italiane del secolo scorso, cioè l’Arte Povera e la Transavanguardia, a Rivoli non erano mai stati presi in considerazione. Quei progetti suscitarono un notevole interesse internazionale: la mostra di Piero Gilardi andò al Van Abbemuseum di Eindhoven e a Nottingham Contemporary in Inghilterra, mentre quella di Luigi Ontani andò alla Kunsthalle di Berna e al Consortium di Digione.
Tra i progetti realizzati durante la sua direzione, ce n’è uno a cui si sente particolarmente legato?
Sono diversi i progetti a cui mi sento legato. A proposito di figure irregolari sono fiero di aver organizzato la prima grande mostra museale europea di John McCracken, una sorta di eretico del minimalismo, che dipingeva visionari mandala colorati e considerava l’arte come il mezzo per un’esperienza spirituale, alta e misteriosa. Se i regolari costruiscono, gli irregolari annunciano, e proprio questa loro capacità profetica e questa loro volontà di essere fuori dal coro mi hanno sempre interessato. Per questa ragione dedicammo una lunga serie di incontri alle grandi figure irregolari del nostro Paese, come Emilio Villa o Amelia Rosselli per fare due nomi. Un’altra mostra di cui vado fiero è la personale di Thomas Schütte, la sua prima grande mostra in un museo italiano, che ho cocurato con Dieter Schwarz. Per la prima volta in assoluto esponemmo le diciotto Frauen tutte insieme nella Manica Lunga, con la serie completa dei loro bozzetti in ceramica, e oltre cento acquerelli provenienti dalla collezione privata dell’artista. Ancora oggi, a distanza di quasi quindici anni, continuo a incontrare persone che ricordano quella mostra come una delle più potenti e belle mai organizzate nella Manica Lunga.
Durante la sua direzione, c’è un progetto che, per qualche motivo, non è riuscito a realizzare? Ce ne vuole parlare?
In effetti c’è un progetto che non sono riuscito a realizzare perché sono partito da Rivoli prima del previsto, per trasferirmi in Svizzera. L’idea di una mostra che mi è venuta negli anni Novanta, quando ero studente di filosofia a Siena. Si tratta in assoluto del mio primo progetto curatoriale e l’unico che non ho ancora realizzato. A un certo punto, nel contesto dei miei studi in estetica, mi capitò tra le mani un libro di Giorgio Agamben, Categorie Italiane, una raccolta di saggi sulla letteratura italiana, da Dante fino a Manganelli. Nel saggio «Comedìa», il filosofo analizza la coppia categoriale commedia/tragedia, e giunge alla conclusione che uno dei tratti che più tenacemente caratterizzano la cultura italiana è proprio «la sua essenziale pertinenza alla sfera comica e il suo conseguente rifiuto della tragedia». Riflettendo sul saggio di Agamben mi dissi che questa caparbia intenzione antitragica e comica intrideva di sé e determinava non solo la letteratura, ma anche l’arte italiana. Quello antitragico e comico sembra il grande tema dell’arte del nostro Paese, a partire dal Rinascimento, e ci dà anche la possibilità di guardare all’arte del secondo Novecento da una prospettiva diversa rispetto a quella da cui siamo abituati a guardarla: appunto secondo il canone binario Arte Povera o Transavanguardia. Non parlo dei temi del buffo o della facile ironia, ovviamente, parlo invece del comico come veleno, come cianuro, cioè di una sostanza «che entra nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in un ghigno sospeso», come ebbe a dire in una intervista Carmelo Bene. Si tratta insomma di una mostra che nelle mie intenzioni avrebbe dovuto oscillare in modo esemplare tra comico e tragico, mostrando infine la centralità trionfante di questo ghigno amaro. Comunque, non mi dispiace non aver realizzato questa mostra quindici anni fa a Rivoli, perché la farò finalmente nel 2026 al MaXXI di Roma.
Quale contributo duraturo ritiene di aver dato al museo?
Tre anni non sono sufficienti per dare un contributo duraturo a un museo, forse nemmeno a una Kunsthalle. Ho avuto il tempo di impostare un lavoro sulle grandi figure irregolari del mondo dell’arte e della letteratura, ma questo non so se possa essere giudicato un contributo duraturo, ammesso che abbia un senso parlare di contributi duraturi per istituzioni come i musei di arte contemporanea, che dovrebbero tendere, diciamo per loro natura, a una metamorfosi continua, accompagnando così il cambiamento di paradigma del mondo. Se avessi avuto più tempo a Rivoli avrei sicuramente fatto quello che ho fatto al Centre d’Art Contemporain di Ginevra, cioè tante mostre di riscoperta, come quelle di Giorgio Griffa, Gianni Piacentino, Rochelle Feinstein e Lisetta Carmi, oltre a grandi rassegne di artisti italiani più giovani che considero di primo piano anche a livello internazionale, come Roberto Cuoghi e Chiara Fumai. In realtà sono contento di aver fatto questo programma in Svizzera invece che in Italia. Bisogna saper partire senza rimpianti ed è fondamentale «non marsalarsi», come diceva Boetti. Proprio il «marsalarsi» a me sembra che sia il rischio maggiore che corriamo noi direttori di istituzioni. Non è vero?
Altri articoli dell'autore
I 40 anni del museo torinese di arte contemporanea scanditi in una cronologia anno per anno
«Ritengo che il mio contributo sia stato la difesa incondizionata del museo nonostante i tagli di budget e un’assurda politica di governance e accorpamento dei musei del territorio»
«Ho lavorato per connettere il museo al territorio (molti torinesi ancora non lo conoscevano) e al mondo e, sopra ogni cosa, ho amato lavorare direttamente con gli artisti. È stato bellissimo, tutto era più facile perché il mondo dell’arte era molto diverso e il mercato non era ancora entrato a gamba tesa»
Nicholas Fox Weber fa rivivere l’esistenza del pittore olandese e il modo in cui creava le sue opere grazie a meticolose ricostruzioni dei contesti storici e culturali in cui l’artista visse e operò