Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliCome ha trovato il museo all’inizio del suo mandato?
L’inizio del mio mandato è coinciso con una serie di forti tagli economici (da parte delle amministrazioni pubbliche e di molte realtà private) e con il tentativo politico di modificare la missione non solo del museo, quale centro per l’arte contemporanea, ma dell’intero assetto museale della Regione e di Torino, ritenendo più «funzionale» accorpare le diverse realtà: una vera e propria ossessione per la governance. Addirittura rischiava di essere minata la credibilità del primo museo d’arte contemporanea italiano perché l’attenzione veniva concentrata sul poco elevato numero di visitatori, piuttosto che sulla ricerca di nuove forme di investimento per sviluppare maggiormente gli scopi istituzionali e l’attenzione verso nuovi pubblici. Nonostante queste difficoltà è stato possibile, anche grazie all’entusiasmo e al lavoro di molti, realizzare il programma espositivo. Ho molto lavorato a rivedere ogni voce di bilancio e a cercare soluzioni sostenibili, mantenendo lo sguardo sulla ricerca della qualità del progetto culturale e del posizionamento internazionale e sulle professionalità del museo. Questo ha permesso, oltre che di impostare appunto un programma, anche di stabilizzarne diversi lavoratori, da anni impegnati al museo con contratti precari, in diversi settori interni, dalla comunicazione al dipartimento educazione a quello curatoriale.
Tra i progetti realizzati durante la sua direzione, ce n’è uno a cui si sente particolarmente legata?
È difficile scegliere un progetto in particolare, permettetemi di allargare un po’ lo sguardo su quella che è stata l’attività del museo nei cinque anni di mandato. Occorre pensare a un significato più coerente del museo: al suo ruolo di laboratorio e non di mero spazio espositivo, né tanto meno di luogo glamour o oggetto dei desideri dello star system. Vorrei citare, per questo, tre esempi di progetti che ritengo abbastanza emblematici su come ho inteso muovermi. La collezione del museo rappresenta una fonte di energia e di prestigio, ne costruisce e solidifica l’identità ed è lo specchio della sua attività. In quest’ottica la programmazione ha avuto tra le sue priorità la valorizzazione della collezione proponendola in rinnovati percorsi e approfondimenti tematici. Ancora: la collezione è stata protagonista di uno degli esempi che vorrei fare. Il Castello di Rivoli è stato promotore insieme alla Triennale di Milano di una rete museale coordinata e articolata per un’unica mostra-evento in 7 istituzioni museali di 6 città italiane. Nello specifico il progetto «Arte Povera 2011», curato da Germano Celant insieme a ciascuno dei direttori delle istituzioni, ha prodotto una catena di collegamenti e ogni istituzione coinvolta ha trovato il suo spazio. Da Nord a Sud si è impostata una geografia espositiva, curatoriale e scientifica. Con «Arte Povera International» al Castello sono state messe a confronto le opere storiche dei protagonisti del movimento con altrettanti capolavori di artisti della scena internazionale dell’epoca. La selezione è avvenuta attraverso un’accurata ricerca scientifica sulle mostre che tra il 1966 e il 1972 hanno visto l’Arte Povera in dialogo con diverse e parallele correnti artistiche internazionali. La specificità della mostra di Rivoli è stata quindi l’incontro tra temi e poetiche sulla scena internazionale che vide il movimento italiano proiettato in uno scambio entusiasta con i linguaggi e le modalità di dialogo degli altri movimenti e artisti del tempo, dalla Land, Body e Conceptual Art. Tengo particolarmente a questo risultato perché penso, ancor oggi, che le istituzioni culturali debbano avere il compito di collaborare tra loro, non per egemonia culturale né per svilirne le specificità, ma per rafforzare i processi creativi che ognuno ha in nuce. Il Castello è un insieme ricco di suggestioni, di prospettive e di aperture, organizzate nella partitura doppia di ambiente storico e vocazione contemporanea, su questo pas de deux un esempio nella programmazione delle mostre temporanee mi vede particolarmente affezionata alla personale dell’artista francese Sophie Calle, una vera e propria sfida, un confronto da parte dell’artista con un luogo carico di storia. Mettendo in relazione le proprie storie e narrazioni, il suo vissuto personale, divenuto oggetto d’arte e di ricerca, ha proposto un progetto interamente site specific, un percorso nelle sale più auliche del museo. Il concept ha incluso opere incentrate sui temi dell’affetto e dell’emozione, sulla morte, sull’analogia madre/mare alla base del titolo della mostra «Madre»: un mare che accoglie e accomuna, copre e investe un’immensità di sentimenti ed emozioni contrastanti. Il terzo progetto che vorrei citare è l’ideazione, insieme alla curatrice Lavinia Filippi, del primo esperimento in Italia di una web tv museale (purtroppo non solo non rinnovata, ma oscurata dopo la fine del mio mandato). La web tv del Castello di Rivoli è stata la prima web tv museale d’Italia organizzata in maniera organica con video su piattaforma streaming professionale che permetteva la visualizzazione dei video su tutti i dispositivi multimediali e mobile. I servizi trasmessi in streaming erano suddivisi in rubriche tematiche, un vero e proprio palinsesto televisivo. Attraverso esclusive interviste agli attori della contemporaneità, artisti, storici dell’arte, curatori, ma anche grazie all’intervento di esponenti di altre discipline, all’archivio della videoteca, i video online raccontavano le attività del museo «in tempo reale» proponendo approfondimenti e nuove chiavi di lettura. La web tv del Castello fu, tra l’altro, selezionata dal Prix Italia 2013 nelle finali come miglior progetto culturale insieme al canale video del Metropolitan di New York e a quello del Teatro Piccolo di Milano.
Durante la sua direzione, c’è un progetto che, per qualche motivo, non è riuscita a realizzare? Ce ne vuole parlare?
Avrei desiderato incrementare il patrimonio del museo attraverso un progetto di centro di ricerca, che fortunatamente anni dopo è stato costituito, attraverso acquisizioni di materiale storico fondamentale per la ricerca, lo studio e il posizionamento del museo su questo tema a livello internazionale. In particolare, avevo tentato di proporre l’acquisizione dell’archivio e della biblioteca di Harald Szeemann. Ma non è stato possibile neppure iniziare una trattativa per via del costo troppo elevato. E come già si è detto il museo aveva puntati addosso tutti i fucili taglia budget per cui in quel momento era impossibile trovare strade per attivare nuovi ambiziosi progetti. L’archivio Szeemann è stato poi acquisito dal Getty Research Institute.
Quale contributo duraturo ritiene di aver dato al museo?
Nonostante il museo sia stato sottoposto in diverse occasioni allo stallo, dovuto agli stop and go che la crisi ha prodotto, non è stato abbandonato, ha mantenuto un flusso costante di programmazione. Ritengo che il mio contributo sia stato la difesa incondizionata di un’istituzione e di una città, Torino, che per storia e vocazione ha costruito, prodotto e innovato, consegnando al mondo intelligenze e realtà culturali di eccellenza. Una città che ha giocato e ancor oggi è in grado di giocare un ruolo indiscusso da protagonista.
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«In tre anni ho avuto il tempo di impostare un lavoro sulle grandi figure irregolari del mondo dell’arte e della letteratura, ma questo non so se possa essere giudicato un contributo duraturo, ammesso che abbia un senso parlare di contributi duraturi per istituzioni come i musei di arte contemporanea, che dovrebbero tendere, diciamo per loro natura, a una metamorfosi continua»
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