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Matteo Mottin
Leggi i suoi articoliFrancesco Bonami (Firenze, 1955) ha un’esperienza pressoché assoluta in fatto di biennali: nel 1997 cura la seconda edizione di Site Santa Fe, nel 2000, a Lubiana, la terza edizione di Manifesta, nel 2003 è direttore artistico della 50ma Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, e nel 2010 della 75ma edizione della Whitney Biennial a New York. Lo abbiamo incontrato per capire come sono cambiate queste manifestazioni negli ultimi 28 anni e il loro peso nei rispettivi contesti culturali.
Secondo lei ha ancora senso fare biennali?
Credo di sì. Il mondo cambia, si allarga, ci sono tantissime nuove realtà e identità, e penso sia ancora attuale fare biennali. Un tempo il panorama era molto limitato, mentre oggi è in costante trasformazione, quindi è interessante ogni due anni fare il punto della situazione sullo stato dell’arte.
Che differenze ci sono tra il curare una biennale in Italia e all’estero?
La Biennale di Venezia è un enorme meccanismo con una visibilità unica, è stata la prima biennale e rimane ancora la più importante e strutturata. Diciamo che le altre sono mostre che si fanno ogni due anni. Quella di Venezia rimane una cosa molto speciale, unica, anche in termini di adrenalina e di visibilità. Le altre biennali hanno una sede, quella di Venezia ha tutta una città, e questo crea un’atmosfera che la rende unica. Tanti provano a eguagliarla ma non ci riescono.
Com’è cambiata la Biennale di Venezia in questi ultimi 22 anni?
Credo sia cambiata nel bene e nel male. Quando l’ho fatta io era ancora una vera avventura, quasi un’impresa alla Fitzcarraldo. Poi, a poco a poco, si è strutturata in modo molto più forte dal punto di vista organizzativo, con lo svantaggio però che è diventata molto più convenzionale, anche perché è cambiata la generazione di curatori. I curatori sono diventati più strategici, e le biennali sono diventate più mostre e meno biennali.
Lo scorso anno, in un’intervista per questo giornale, diceva che la sua Biennale è stata «l’ultima Biennale». Che cosa intendeva dire?
In modo un po’ arrogante e presuntuoso, dicevo che è stata l’ultima perché c’erano tantissimi curatori, tantissimi artisti, e c’era anche tanta improvvisazione, e forse la Biennale un po’ improvvisazione dovrebbe essere. Quelle successive sono diventate grandi mostre ma un po’ meno biennali, un po’ meno avventurose e un po’ più prevedibili.
Crede che questo sia dovuto a un cambiamento nella figura del curatore?
Fino a quando l’ho fatta io, la Biennale era più radicata nel presente, poi a poco a poco si è cominciato a fare sezioni storiche, a invitare artisti scomparsi. È diventata più un lavoro scolastico che un tentativo di mappare il mondo con tutti i suoi problemi e i suoi difetti.
C’è spazio per la spontaneità nella curatela di una biennale?
Quando la curai io invitai 11 curatori diversi che avevano la totale libertà di fare le mostre che volevano, e c’era questa spontaneità, questa imprevedibilità, un po’ come nei cadaveri squisiti. Non sapevo esattamente che cosa avrebbero fatto gli altri. Questo ha creato un aspetto abbastanza dinamico, di dialogo e di contrasto. Oggi spesso i presidenti non vogliono che il curatore abbia altri curatori, vogliono che ci sia una linea editoriale unica, e questo ne unifica la visione però rende anche un pochino più statica la manifestazione.
È il committente a non lasciare questa libertà?
No, la libertà c’è, c’è un’assoluta libertà di scelta. Non è il committente. Ai miei tempi il curatore era una figura ancora abbastanza campata in aria. Ci sono stati Germano Celant, Bonito Oliva, Harald Szeemann, però insomma noi curatori ancora navigavamo a vista. Poi le generazioni venute dopo di me hanno trovato supporto, sostegno, si sono strutturati meglio e appunto sono diventati più scolastici, più professionali ma anche più strateghi, quindi le biennali hanno avuto una struttura un po’ più rigida di quelle precedenti.
Nel 1997 lei ha curato la seconda edizione di Site Santa Fe. Com’è stato lavorare a una biennale giovane, con solo un’edizione alle spalle?
Il vantaggio dell’America è che loro vivono radicati nel presente. Presentai una lista di artisti assolutamente sconosciuti al pubblico americano, e i trustee che finanziavano l’istituzione museale quando la videro si eccitarono perché non conoscevano nessuno. In Italia è un po’ il contrario, ci si aspetta i nomi noti, i nomi che facciano cassetta. C’è un po’ meno desiderio di novità rispetto all’America.
Nella sua Biennale di Venezia, all’interno della sezione curata da Massimiliano Gioni, c’erano dei nomi nuovissimi per l’epoca, come Micol Assaël, Diego Perrone, Patrick Tuttofuoco. Al tempo c’era un’attenzione diversa nei confronti delle novità?
Sì, ma più che altro bisogna ricordare che a quei tempi non c’era ancora il Padiglione Italia ufficiale con il curatore selezionato dal Ministero. Uno dei miracoli di quella Biennale, merito non soltanto mio ma anche dell’organizzazione che ci lasciò fare, è che costruimmo un vero e proprio padiglione ex novo nei Giardini, un padiglione temporaneo su progetto del gruppo di architettura A12, chiamato La Zona, ovvero il Padiglione Italia. Non era ufficiale. Portai anche un Padiglione palestinese, con Alessandro Petti e Sandi Hilal. Accaddero cose che non mi aspettavo sarebbero andate lisce, perché ricordiamo che quella Biennale era sotto l’allora ministro della Cultura Giuliano Urbani, del governo Berlusconi.
A proposito di Padiglione Italia, che cosa pensa della sua attuale posizione in fondo al percorso dell’Arsenale?
Lo spazio è bellissimo. Certo, non è ai Giardini. È alla fine dell’Arsenale, quindi immagino che forse una percentuale di visitatori possa perderselo.
Crede che ci sia una connessione tra la scarsa percezione dell’arte italiana a livello internazionale e questa decentralizzazione?
No. Il problema dell’arte italiana forse risale addirittura al dopoguerra, ed è dovuto a un contesto economico che creò una borghesia molto abbiente, e gli artisti parlavano a quella borghesia e si abituarono a produrre opere per lei, e questo problema è rimasto. C’è un aspetto familiare inteso in senso negativo, non tanto a livello locale, ma autoreferenziale, che però non riesce a sfondare veramente a livello internazionale, a parte alcuni casi. Si usa un linguaggio, anche nei libri, spesso nel cinema, che parla solo all’Italia. Il grande artista è quello che può parlare anche di casa propria ma lo comunica in modo universale, mentre l’artista italiano lo comunica a sé stesso, come se quello che accade nel suo mondo fosse interessante a prescindere per il mondo esterno. Questa ancora oggi è la debolezza dell’arte italiana.
Qual è l’effetto di una biennale su un artista, sia in termini di mercato sia di carriera?
Se l’artista è bravo può avere un effetto positivo, se l’artista non è bravo ha un effetto temporaneo. Se guardiamo la lista delle presenze alle biennali, ma anche a documenta, di tutti gli artisti che ci sono passati alla fine ne rimangono in piedi pochissimi, quelli bravi. Gli altri scompaiono, anche se magari inizialmente hanno un momento di visibilità, anche di mercato e di vendite. Però questo appartiene a tutte le mostre in grandi istituzioni. Una collettiva alla Tate, al MoMA, al Whitney o al Pompidou dà visibilità all’artista. Adesso le grandi gallerie, come Hauser & Wirth, Gagosian e David Zwirner, hanno un forte potere e questo porta sicuramente a influenzare non in modo diretto, ma psicologicamente, chi fa le biennali. Un tempo le biennali erano il luogo dove si scoprivano gli artisti, adesso sono le biennali che scoprono gli artisti nelle gallerie. La biennale e il museo erano passaggi precedenti all’affermazione di mercato o all’arrivo in una grande galleria, adesso è il contrario.
Nella puntata di «Caro Marziano» di Pif dedicata alla Biennale d’Arte del 2023 lei dice che diventare il direttore della Biennale di Venezia è quasi come essere fatto papa. Trovo questa definizione parecchio attinente al suo approccio all’arte, perché secondo me lei è un po’ un evangelizzatore, le interessa molto parlare ai profani.
Più che parlare ai profani, non mi interessa parlare al mondo ristretto dell’arte contemporanea. Non mi interessa parlare agli altri 12 curatori, 28 galleristi, 10 collezionisti. È un po’ come quando veniva la famiglia a sentirti parlare quando facevi una conferenza. Fa un po’ tristezza parlare soltanto ai 12 amici che ti conoscono. Quando scrivo per «Il Foglio», o per «Vanity Fair», mi piace non sapere chi poi mi legge.
Com’è stato curare la biennale del Whitney? Che importanza ha nel contesto statunitense?
In quel momento aveva una certa importanza, un’importanza comunque limitata ma c’era. È un evento, insomma. Gli americani sono leggermente più laici, danno meno importanza a queste cose. Mentre la fai hai una certa visibilità e sei importante, ma quando fai la biennale del Whitney non sei papa, rimani un curatore. A me la Biennale di Venezia ha cambiato la vita. Hanno iniziato a farmi scrivere sulle riviste normali, sui giornali. Con il Whitney non è arrivato «The New York Times» o «Vanity Fair America» a chiedermi di scrivere. La Biennale di Venezia fa parte della trama della cultura italiana, e tu entri a far parte di quel tessuto.
La sua Biennale aveva un titolo molto forte.
Mi consenta un’enorme debolezza, quella di autocelebrarmi. Nel 2003 la chiamai «Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore», cosa che poi si è avverata, nel bene e nel male. Lo spettatore è quello che oggi decide il destino di un’istituzione.
Rileggendolo oggi fa pensare all’importanza dei like e dei follower sui social.
Se io presento un mio libro da qualche parte, perdo una giornata intera e se ci sono 20 o 30 persone che mi vengono ad ascoltare sono fortunato. Con tre minuti di Instagram arrivi a centinaia di persone.
Secondo lei ci sono troppe biennali?
Anche se fosse, perché no? E poi, troppe in che senso? È come dire che ci sono troppi mercati rionali. Uno non è che ci deve andare per forza. È come dire: come faccio ad andare a tutti questi mercati rionali? Io, per esempio, preferisco andare al supermercato, ma non mi pongo il problema se ci siano troppi mercati rionali.
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