Laura Lombardi
Leggi i suoi articoli«Uomo d’abito di corpo melanconico, e che gli sogni fatti la notte come cose verissime raccontava», Francesco de’ Montelatici detto Cecco Bravo, allievo di Giovanni Bilivert, è una delle personalità più intriganti del Seicento fiorentino, per le sue opere riconosciute «ammirabili» specie per quella «bizzarra maniera, che da vicino indistinta e confusa, ma da lontano finita e distinta con il rappresentare il vero della pittura la bugia manifesta», come scriveva un suo contemporaneo, Giovanni Cinelli. Tuttavia, all’artista, riscoperto nel Novecento, dopo un progressivo oblìo, da Anna Rosa Masetti, Gerhard Ewald, Piero Bigongiari, Anna Barsanti, Carlo Del Bravo, Giovanni Pagliarulo, non era mai stato consacrato un lavoro di così esaustiva portata come quello di Francesca Baldassari, studiosa della pittura fiorentina del Seicento da quasi quarant’anni. Due densi volumi che ne analizzano l’attività di pittore e disegnatore, ricostruiscono il corpus delle opere, sciolgono alcuni nodi riguardo la cronologia e chiariscono il rapporto tra l’artista e alcuni contemporanei, Giovanni Bilivert il suo maestro, col quale Cecco si confronterà nel bellissimo «Angelica e Ruggiero» all’Art Institute di Chicago (ex collezione Kress), ma anche Francesco Furini, Felice Ficherelli e Simone Pignoni.
Nel saggio del primo volume, Baldassari segue il percorso stilistico di Cecco, fin dagli esordi nell’atelier di Bilivert, tra gli anni venti e trenta, in cui l’artista reinterpreta in maniera originale i modi dei grandi del primo Cinquecento (da Andrea del Sarto, a Pontormo e Rosso Fiorentino), ma anche, specie a Pistoia dove lavora per i Padri Serviti, la linea narrativa di Bernardino Poccetti e di Giovanni da San Giovanni. Il carattere estroso e bizzarro degli esordi cecchiani si palesa nel 1636, quando è chiamato da Michelangelo Buonarroti il Giovane ad affrescare alcune pareti della stanza della biblioteca della sua dimora fiorentina, per poi essere tuttavia allontanato dallo stesso mecenate per il tono beffardo, con accenti grotteschi, adottato nel rappresentare illustri matematici e scienziati fiorentini (Cecco sarà infatti sostituito da Domenico Pugliani e Matteo Rosselli). Le sue doti non sfuggono però ai Medici, come testimoniano gli affreschi della sala del Tesoro di Salisburgo e del Salone degli Argenti di Palazzo Pitti, dove Montelatici dipinge in modo più elegante e nei modi sinuosi prossimi alla maniera di Furini, attivo nella stessa sala.
In quegli stessi anni, durante i quali probabilmente soggiorna tra Parma (per Correggio) e Venezia (per Tiziano), Cecco affronta anche il genere della natura morta, pur sempre inserita in quadri di figura, come il brano del cavolfiore nella «Fanciulla con natura morta autunnale». La materia sfumata che accentua l'atmosfera misteriosa crea una «situazione sentimentale crepuscolare e d’attesa» (per dirla con Del Bravo), sintomo di quella tenuta lirica che ricorre in molte altre opere. E, proprio dal confronto con la modella di quel dipinto, oltre che con lo stile, l’autrice riconduce a Montelatici l’«Allegoria della distinzione tra Bene e Male» del Museo di Feltre, proveniente dalla collezione fiorentina Dei e tradizionalmente assegnata, come altre tele, a Sebastiano Mazzoni. La vena satirica riaffiora tuttavia nell’«Armida» (alle Galleria degli Uffizi dal 2017) e le spiccate doti teatrali di Cecco si ritrovano in opere quali «Latona e i pastori della Licia» già in collezione di Luigi Baldacci a Firenze, in cui sceglie l’apice drammatico della storia tratta dalle «Metamorfosi» di Ovidio.
Un’analoga enfasi drammatica nell’affrontare certi temi, si traduce, verso la fine degli anni Quaranta, nelle pennellate sfrangiate e nel luminismo contrastato presenti nelle «Nozze di Sara e Tobiolo», dipinto che, al pari del «Cristo nell’orto degli ulivi», svela la vicinanza di Cecco a Ficherelli. Sempre a conferma della particolarità del suo temperamento, ricorrono, negli anni Cinquanta, soggetti di complessa simbologia, con riferimento a episodi tratti dalla letteratura platonica, senza precedenti pittorici, quali il «Flautista e bevitore» già presso Canesso a Parigi che Massimiliano Rossi ha proposto di leggere come «L’ubriachezza di Alcibiade». Sono purtroppo perdute alcune opere della maturità, tra cui il grande affresco con la «Caduta degli angeli ribelli» del 1653 per la controfacciata della chiesa dei Santi Michele e Gaetano a Firenze (forse l’opera di Cecco più celebrata dalle fonti), impresa oggi testimoniata solo da un folto e bellissimo numero di disegni preparatori, che mostrano la vicinanza di Cecco alla grafica di Bilivert, specie per la maniera frenetica nell’abbozzare le immagini sul foglio, tramite un linearismo franto e convulso.
Il rapporto con i disegni è infatti un punto importante in questi volumi: se il catalogo delle opere comprende oltre settanta dipinti (con schede molto puntuali riguardo la provenienza, passaggi sul mercato antiquario, riferimenti documentari e bibliografia completa, includendo anche le opere respinte), il catalogo della grafica annovera oltre quattrocento disegni, dove si evidenzia quello «spirito ed una espressione maravigliosa eccedente ogni umana credenza», lodata da Francesco Maria Niccolò Gabburri. Nelle opere degli ultimi anni quando la pittura di Cecco si fa più filamentosa e espressionistica, il tono e la condotta rimandano proprio ai disegni coevi definiti da Gabburri «sogni». Seguiamo dunque Cecco fino all‘eccentricità allucinata dei dipinti della stagione austriaca, dopo il trasferimento a Innsbruck, avvenuta il primo giugno del 1660 in compagnia del fedele allievo e amico Jacopo Benvenuti, quando la morte lo coglie ancora nel pieno della sua attività nel 1661.
Cecco Bravo, di Francesca Baldassari,
400 pp, ill. a colori, 2 voll., Tau ed., Todi 2024, € 240 ciascuno
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