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Flaminio Gualdoni
Leggi i suoi articoliAlla fin fine, chi cippa erano i pittori di Pompei? Nomi non se ne hanno, e dopo i soliti meritevolissimi quattro stili di August Mau (roba, per dire, del 1882) veri grandi studi specifici non ci sono stati. La mostra bolognese «I pittori di Pompei» al Museo Civico Archeologico di Bologna (23 settembre-19 marzo 2023) si contraddistingue per l’ambiguità di fondo, che è anche la sua ricchezza: racconta di decorazioni parietali, molto legate ai contesti architettonici, ma si basa sulle collezioni del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dunque su brani pittorici ridotti a quadri dal Settecento in poi: «pinakes» che qualche volta nascevano da «pinakes», cioè da brani autonomi di pittura inseriti nelle pareti, e molte altre volte no.
Un bel casino, insomma, moltiplicato dal fatto che qui stiamo parlando di Pompei, dunque del mito dei miti, del contesto in cui anche la leggenda è ormai parte di un’identità storica, manco a farlo apposta maturata in climi di montante neoclassicismo: al punto che viene da chiedersi se, in quel periodo cruciale tra Sette e Ottocento, in pittura contasse più il «greco puro» che Jacques-Louis David letteralmente inventava o la censurabilità delle «nudità licenziose» che Louis de Jaucourt rimproverava (sull’Encyclopédie!) ai pittori pompeiani, che non quadrava con l’idea che si «doveva» avere della pittura antica.
Dunque si tratta di fare uno slalom, soprattutto tra l’evidenza di queste pitture e l’idea che ormai si è sedimentata tenacemente, con il contributo decisivo del Settecento e dintorni. Che i pittori più di tutti, ben più degli architetti e degli scultori per esempio, fossero maestranze di livello inferiore, è un fatto assodato: e che in particolare quelli che lavoravano sui muri di Pompei in quel tardo ellenismo e in un’area oggettivamente provinciale, fossero, per dire come il grande scrittore, «vili meccanici», un fatto al quale dovremmo dedicare più d’un pensiero: in fondo solo un caso tanto straordinario quanto drammaticamente fortuito ha fatto sì che la pittura pompeiana sia divenuta un paradigma universale, e non un capitolo marginale d’una vicenda che si può immaginare ben altrimenti grande.
I pittori di Pompei erano artigiani, sapienti il giusto, derivativi il giusto, che davano alla loro clientela ciò che le permetteva di sentirsi chic. Detto questo, resta anche da considerare quanto elevato fosse lo standard di tale artigianato rispetto ai livelli cui oggi ci siamo assuefatti: che è un po’ come guardare i compiti degli studenti d’Accademia dell’Ottocento, e chiederci se con l’acqua avvelenata dell’accademismo non abbiamo buttato via anche il bambino del talento artistico, senza avere veramente poco o nulla in cambio.
Resta poi da riflettere ulteriormente su un corollario non banale. Da quando abbiamo posto sugli altari il nome dell’artista, abbiamo edificato un enorme fuorviante falso bersaglio rispetto all’intendimento della qualità pittorica. L’anonimato degli artigiani pompeiani è lì a ricordarcelo sempre, conficcato nel cuore di una faccenda che, per i rami, è parente dell’invenzione di quella cosa che ci ostiniamo a chiamare il «bello ideale».

Un particolare della decorazione parietale di Pompei con Admeto e Alcesti
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