Alberto Salvadori
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La stagione delle fiere e delle aste si è chiusa e ci si chiede sempre più spesso chi può trascorrere ogni anno vari giorni a Hong Kong, Milano, Basilea, New York, Londra, Parigi, Miami per i grandi appuntamenti del circuito della contemporaneità. In gran parte è una nuova élite, in molti casi persone che si muovono nelle città come tappe di un eterno shopping tour cercando esperienze da vivere. Il mondo dell’arte contemporanea non è solo questo, ma anche questo, tra eventi di ogni tipo, drammaturgie in fashion design e mostre, nelle quali si privilegia una messa in scena rassicurante e destinata alla definizione di un valore economico.
L’arte si è avvicinata sempre più al lusso e per certi aspetti trasformata da sogno, ricerca, scommessa sull’ignoto, a un biglietto d’ingresso per un parco a tema ultraesclusivo. Non si paga per l’opera in sé, ma per far parte di un club che vorrebbe essere «segreto» per poi dire agli altri, pregandoli di non parlarne, che collezione hai visto, che casa o che meraviglie nascoste alle quali hai avuto accesso. L’«arte», quando raggiunge certi livelli di costo, non è più soltanto una questione di denaro ma di capitale simbolico; quindi, alla fine non conta che cosa rappresenta, la storia dell’opera, chi l’ha fatta, il perché, il quando, ma cosa puoi raccontare di te attraverso l’acquisto, il possesso. Tutti cercano di essere originali, possiamo dire che viviamo nella società della «distinction», e vivere all’interno di una scenografia disegnata ad hoc per sentirsi tali non ha prezzo.
Il collezionista-accumulatore ha una vasta rete di possibilità, galleristi, advisor, consulenti, curatori, che si innescano senza soluzione di continuità. La domanda che ci poniamo è: chi sono i collezionisti e davvero ce ne sono ancora tanti? Oppure nuove figure di acquirenti stanno diventando i veri protagonisti della scena dell’arte? Intanto i tempi, inteso proprio come lo scorrere del tempo, oggi sono diversi. Nella nostra epoca in poco più di qualche lustro si creano raccolte di opere che aspirano allo status museale, destinatarie anche di una fruizione pubblica; questo da solo meriterebbe una dettagliata analisi. Accumulare opere, essere presenti sulle varie piattaforme come le grandi fiere, le aste, essere riconoscibili e riconosciuti, è una delle più alte ambizioni per molti di quelli che comprano arte oggi.
L’opera è gestita anche come «commodity» e, senza retorica, questo passaggio è stato naturale con l’avvento di nuove coscienze economiche, nuove forme di ricchezza e relativa gestione della stessa. Il parco acquirenti, come quello dei venditori, si è dilatato in pochi decenni. Il collezionista come lo abbiamo sempre pensato è un soggetto raro, ne esiste una nuova espressione per il quale è venuto meno il rapporto intimo e privato con l’opera. Non credo sia un problema, ogni epoca subisce e crea cambiamenti; l’arte esisterà sempre e i suoi fruitori anche.
Un suggerimento però lo darei a chi si sta appassionando al tema: andare a vedere «Among the invisible joins» al Museion di Bolzano (fino al 2 marzo 2025), dov’è in mostra parte delle opere di una collezione iniziata quarant’anni fa (quella di Enea Righi, Ndr), scevra da strategie, posizionamento di mercato e visibilità, che continua a vivere e rigenerarsi grazie alla passione e dedizione dei due collezionisti che l’hanno creata. Un ottimo esempio di come si possa essere e stare nel mondo dell’arte oggi mantenendosi intellettualmente autonomi e originali. Di persone così se ne vedono ancora ma in contesti più appartati, fiere più piccole, gallerie di ricerca, luoghi per l’arte dove si tenta ancora di produrre e cercare qualcosa di non scontato.
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