Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliA volte bisogna allontanarsi dalla propria cultura per capire quanto essa sia parte di noi. Così è stato per Eteri Chkadua (Tbilisi, 1965) che ha lasciato la sua Georgia appena ventenne, quando il Paese era ancora parte dell’Unione Sovietica. Fin dai primi anni all’estero, la ricchezza e le contraddizioni della cultura georgiana sono entrate nella sua pittura, mentre nell’ombra c’era sempre la minaccia russa. Dopo aver vissuto negli Stati Uniti, in Giappone e in Giamaica, dalla scorsa estate Chkadua è tornata a vivere a Tbilisi dopo oltre trent’anni e ha trovato un Paese in tumulto, in cui l’orgoglio per la propria storia va di pari passo con il desiderio di modernizzazione. Da mesi il Paese è scosso da quotidiane proteste contro il Governo filorusso. L’artista non è stata a guardare e non solo partecipa quotidianamente alle manifestazioni ma sta utilizzando l’arte per amplificare il messaggio dei manifestanti. Tra fine dicembre e inizio gennaio ha organizzato una mostra a poche centinaia di metri dalla lussuosa casa dell’oligarca Bidzina Ivanishvili, accusato di tenere le fila di un Governo che sta allontanando il Paese dall’Europa spingendolo tra le braccia della Russia.
Ha lasciato la Georgia quando era molto giovane. Può raccontarci come andò?
Durante il regime sovietico, ai cittadini comuni non era permesso viaggiare fuori dall’Urss ed era molto raro che agli stranieri fosse concesso l’ingresso. Nel 1985 arrivò il primo americano: era un biochimico che, affascinato dall’alfabeto georgiano, aveva deciso di studiare la lingua. Venne a casa nostra per conoscere mio padre, un linguista. Io e lui ci innamorammo. Dopo sei mesi, dovette tornare negli Stati Uniti e non avevo idea se gli sarebbe stato permesso tornare. Arrivò nel 1988 e ci sposammo a Tbilisi per poi trasferirci negli Stati Uniti: fui una dei primissimi georgiani negli Stati Uniti.
Come fu il suo arrivo negli Stati Uniti? Come venivano percepiti il suo stile e i tuoi temi?
Quando arrivai a Chicago fui scioccata dal fatto che la maggior parte delle persone non avesse mai sentito parlare della Georgia. Parlavo senza sosta del fatto che è uno dei Paesi più antichi, con una lingua unica. Nel 1990 feci la mia prima mostra: nonostante i prezzi elevati, le opere andarono tutte vendute. Quando studiavo all’Accademia delle Arti di Tbilisi i professori ci incoraggiavano a seguire l’Impressionismo, ma io avevo creato una mia tecnica, molto dettagliata ed elaborata, che i critici paragonarono all’arte fiamminga. Quando poi mi trasferii a New York, tutti mi dicevano che la pittura figurativa non era di moda e che avrei dovuto seguire il Minimalismo e fare installazioni. Io però volevo creare un linguaggio visivo chiaro per comunicare con i georgiani e con il mondo.
Quanto era diverso il Paese che ha lasciato negli anni Ottanta da quello in cui è tornata ora?
Nella Georgia sovietica l’etica del lavoro non era apprezzata, gli stipendi erano uguali per tutti e molto bassi; la maggior parte delle donne restava a casa e si prendeva cura della famiglia; le donne non dovevano fare sesso prima del matrimonio o avere relazioni libere. La nuova generazione è molto diversa e moderna. Sembrano piuttosto occidentali, studiano e parlano inglese invece che russo e preferiscono lavorare sodo e avere libertà personale. Vedono il futuro della Georgia nell’Unione europea.
Le sue esperienze all’estero hanno influito sul modo in cui lei si relaziona al suo Paese?
Sono sempre stata critica nei confronti delle tradizioni, ma vivere in Paesi diversi me le ha fatte mettere ancora più in discussione. Così, quando poi sono in Georgia, affronto questioni di cui nessuno vuole parlare. Per esempio, avendo visto i pregiudizi subiti dai giamaicani a New York, avevo dipinto ritratti di rastafariani per mostrarne la spiritualità. In Georgia si beve molto, ma fino a poco tempo fa si veniva arrestati per aver fumato marijuana. Sono stata tra i primi a parlare di legalizzazione alla tv georgiana. Dopo che il primo raduno Lgbt fu attaccato, organizzai una mostra con un’organizzazione Lgbt, raccogliendo le loro storie di violenza in una mostra e interviste che hanno contribuito a mettere in discussione le opinioni omofobe.
Che cosa sta succedendo ora in Georgia?
Lo scorso aprile decine di migliaia di georgiani sono scesi in piazza a Tbilisi per protestare contro l’approvazione di una legge di ispirazione russa che prende di mira media e Ong che ricevono finanziamenti dall’estero. Il Governo ha poi promulgato leggi autoritarie che colpiscono la comunità Lgbt. Il 26 ottobre, le elezioni parlamentari hanno decretato la vittoria del partito Sogno Georgiano, già al potere da 12 anni. Tuttavia, osservatori indipendenti hanno individuato brogli elettorali su larga scala. Da allora sono in corso proteste: i manifestanti scendono in piazza ogni giorno e ogni notte, chiedendo nuove elezioni. Le proteste si sono particolarmente accese dopo che il partito al Governo ha dichiarato di voler bloccare la richiesta del Paese di avviare i colloqui per l’adesione all’Unione europea. Stanno riportando la Georgia nella sfera di influenza del Cremlino. Durante le proteste, la polizia è diventata sempre più violenta; ha utilizzato spray al peperoncino, idranti, gas lacrimogeni e violenza fisica contro dimostranti, oppositori e giornalisti. Le forze speciali e gli agenti di polizia indossano maschere e non hanno un numero identificativo. Ora stiamo chiedendo anche nuove leggi affinché la polizia indossi uniformi con numeri identificativi. Circa 500 manifestanti sono stati arrestati, molti sono stati picchiati durante la detenzione. Queste brutalità non hanno però fermato o ridotto le proteste. In strada ci sono un’energia e un’unità incredibili.

Eteri Chkadua, «In Black», 2013

Eteri Chkadua, «Sniper», 2008
Oltre a prendere parte alle proteste, ha anche organizzato una mostra.
Ho manifestato quasi ogni giorno fino a tarda notte. Nelle strade è nato il mio nuovo progetto: «Muse-Um of Resistance» e la prima mostra, dal titolo «KotsRealizm» (che ironizza sul nomignolo del partito al Governo, Ndr), organizzata in appena una settimana. La mostra presenta dipinti, disegni, stampe, oggetti e poesie di giovani artisti georgiani, che riflettono con sarcasmo sui temi delle attuali proteste e criticano il Governo.
Quanto sono importanti le arti per questo movimento?
Gallerie e teatri sono chiusi per protesta, ma sono rimasta sorpresa dal fatto che l’Accademia delle Arti di Tbilisi sia rimasta in silenzio. Ho voluto organizzare una mostra proprio per attirare l’attenzione di coloro che non vogliono lasciare il comfort delle proprie case per difendere la democrazia. L’arte mescolata all’umorismo può essere un’arma potente e presto organizzerò un’altra mostra per ridicolizzare il Governo. Durante l’Urss, l’arte antigovernativa esisteva a malapena. Credo che l’arte serva a sviluppare un pensiero consapevole, portando a una nuova generazione di politici più intelligenti e coraggiosi.
Negli anni, seppure da lontano, ha assistito alla crescente pressione della Russia sulla Georgia e l’ha affrontata nel suo lavoro. Perché ha sentito questo bisogno?
La Russia occupa il 20% del territorio georgiano: nel 1992 si è annessa dei territori georgiani sul Mar Nero, tra cui il villaggio di Otobaia, dov’è nata mia nonna, tuttora occupato dalle forze russe e precluso ai georgiani. Ho molti parenti rifugiati da quelle zone, mentre due zie di mia madre, fuggendo, morirono assiderate tra le montagne. Nel 2008 la Russia ha annesso altro territorio. Vivendo all’estero, durante queste guerre, non riuscivo a smettere di preoccuparmi e di seguire le notizie. È stato naturale esprimere le mie emozioni attraverso i dipinti. Inoltre, la Georgia è piccola e non riceve molta attenzione: volevo sensibilizzare l’opinione pubblica. Se la comunità internazionale avesse prestato più attenzione alla guerra del 2008, forse non ci sarebbero state le guerre di Crimea e Ucraina.
Usa il suo alter ego artistico per parlare della cultura georgiana, sia celebrandola sia criticandola. È stata una scelta consapevole?
Penso che i dipinti siano come canzoni visive. All’inizio dipingere me stessa non era un atto consapevole: stavo attraversando un periodo folle a livello personale. Nel 1997 il gallerista Gian Enzo Sperone ha visto i miei autoritratti e ha iniziato a collezionarli, incoraggiandomi a dipingerne di più. Quando parlo di tradizioni, usando il mio corpo credo di riuscire a parlare più direttamente all’osservatore.
Nei suoi dipinti la figura di donna è forte ma anche accogliente.
La forza nei miei dipinti deriva dalla mia educazione, istruzione e relazioni. Il mio ex marito ha accettato il mio bisogno di libertà e io e mio fratello ci siamo sempre sfidati a vicenda. Ma anche le icone storiche e culturali georgiane mi hanno influenzato: il romanzo Martirio della santa regina Shushanik descrive una donna torturata per la sua fede; nell’età dell’oro georgiana a governare fu la regina Tamar; Maia Tskneteli, una ragazza, uccise il suo aggressore e si unì all’esercito del re.
Lei è atea, ma di recente ha dipinto soggetti religiosi. Perché?
Sono affascinata dalla leggenda di santa Nino che convertì la Georgia al cristianesimo. L’ho dipinta nuda per ricordare che, dietro gli abiti religiosi con cui viene spesso raffigurata, c’è una ragazza molto giovane che intraprese una strada lunga e pericolosa. Che sia verità o leggenda, è una storia sul coraggio di una donna. Nel contesto contemporaneo uso Nino per denunciare il patriarcato e il clero georgiani, esortandoli a opporsi alla violenza della polizia durante le proteste. Ho anche creato una versione della croce dall’aspetto più «felice», per rimuovere dalla mente delle persone l’immagine di un Cristo sanguinante, i traumi causati dalle religioni, i miti che governano la mente umana.
Quali sono le sue principali preoccupazioni sulla «nuova» Georgia e che cosa pensa che accadrà ora?
Temo che l’imprevedibile psicopatico che regna sulla Russia possa provocare e invadere la Georgia, come ha fatto in passato. Da quando il Governo georgiano ha mostrato obbedienza abbandonando i colloqui con l’Unione europea, l’Europa ha tagliato gli aiuti finanziari alla Georgia, il che molto probabilmente ne causerà il collasso economico. Tuttavia siamo ottimisti e crediamo di poter vincere contro il Governo. Ci auguriamo che le sanzioni europee e statunitensi esercitino una pressione sufficiente sul parlamento e portino a nuove elezioni.

Eteri Chkadua. Foto: Jaba Kurtishvili
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